Antonio Trotta
È una storia dolorosissima, che lascia aperte molte domande quella di Antonio Trotta, varesino domiciliato in Svizzera, 39enne, in coma vigile per due anni dopo aver subito un incidente stradale in territorio elvetico, morto il primo ottobre di quest’anno a causa di un’infezione.
L’uomo, che abitava ad Ascona –Svizzera- ed era proprietario con la moglie slava di un ristorante, dopo essere stato per due anni in un ospedale di Lugano, quest’estate è stato ricoverato alla clinica Borghi di Brebbia, dove gli è stata effettuata una tracheotomia che gli ha consentito di riprendere a respirare autonomamente dopo una delle tante complicazioni comuni a questi pazienti: una affezione respiratoria.
E, da lì, i genitori di lui avrebbero voluto che non si muovesse più: anzi che addirittura tornasse a casa loro, ad Albizzate, per tentare una riabilitazione che alcuni medici specialisti italiani dicevano essere possibile.
La cosa sconvolgente è che piuttosto che sostenere i loro cari nell’affronto di ciò che era necessario per il loro Antonio, tutta la famiglia è stata “tirata” dentro delle vicende giudiziarie oseremmo dire assurde. Antonio infatti, pur essendo cittadino italiano residente in Italia e solo domiciliato in Svizzera, era stato affidato dalla moglie dopo l’incidente ad un amico di famiglia in qualità di tutore, Giuseppe Chianese, ristoratore come loro. Un tutore contestato dalla famiglia d’origine cioè dai genitori di Antonio: non fosse altro perché non era un parente, ma un amico scelto dalla moglie che al momento dell’incidente era già in crisi con suo marito, come sostenevano i famigliari. Un tutore, però, che ne reclamava legittimamente il ritorno in Svizzera, proprio in quell’ospedale che gli avrebbe negato le cure in caso di aggravamenti considerandole “accanimento terapeutico”.
A questa richiesta ovviamente si opponevano fermamente genitori e sorelle, che avevano fatto in modo di portarlo in Italia per sottoporlo alla tracheotomia che lo aveva ristabilizzato, e che avrebbero voluto tentare la via della riabilitazione: tanto intensamente che gli avevano già preparato a casa una stanza, secondo le indicazioni dei medici, per poterlo accogliere e accudire, per offrire tutta la loro vita a servizio di questo loro caro figlio malato. E che si erano rivolti all’avvocato varesino Pierpaolo Cassarà perché la legge italiana lo mantenesse nella sua nazione di appartenenza.
Il ricorso d’urgenza presentato al tribunale di Varese il 3 luglio scorso per far si che venisse bloccata la richiesta del tutore di richiamarlo in Svizzera, non aveva però ancora dato un verdetto definitivo, malgrado questa fosse una vera e propria corsa contro il tempo da parte dei famigliari. Rinviato alla procura di Varese dal giudice tutelare la procura stessa, nella persona del Procuratore Maurizio Grigo, aveva disposto una perizia collegiale per tracciare un quadro clinico e capire se potesse essere curato dai familiari. Il destino di un uomo rimpallato in maniera ignobile.
“Un rimpallo inaccettabile” aveva dichiarato l’avvocato Cassarà. Che temeva che da un momento all’altro Antonio fosse trasferito in Svizzera, in una clinica che non avrebbe cercato di curarlo ma che avrebbe voluto dare ai suoi genitori, anche contro il parere negativo dei medici svizzeri, la possibilità di tentarci.
La Commissione tutoria svizzera voleva assicurarsi che la decisione dei familiari fosse la migliore per la salute del paziente. Per questo motivo, spiegava la presidente della Commissione, Marzia Borradori-Vignolini, “appreso dell’imminente dimissione dalla clinica e del rientro presso il domicilio in Italia, in assenza dei necessari riscontri per accertare la bontà della soluzione proposta, ho disposto cautelativamente il rientro in Svizzera dell’interessato in attesa di vagliare l’attuabilità della proposta dei familiari”.
La stessa Commissione Tutoria comunque decideva lo scorso 11 luglio di sospendere la decisione di far rientrare Antonio Trotta in Svizzera, questo perché in quell’occasione, durante l’ultima udienza a Losone coi familiari, questi avevano illustrato un progetto di rientro del paziente al domicilio dei genitori, ad Albizzate.
Dato il rilevante ed effettivo interesse suscitato dalla vicenda, la delegazione della Commissione parlamentare di inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Servizio sanitario nazionale – composta dai senatori, il presidente Antonio Tomassini e Valerio Carrara (FI), Sandra Monacelli (Udc), Daniele Bosone (Gruppo per le Autonomie), oltre che da alcuni funzionari della Commissione e da rappresentanti della polizia giudiziaria – aveva effettuato il 23 luglio un’ispezione nella «Fondazione Gaetano e Piera Borghi» di Brebbia per visitare il paziente e la struttura in cui Antonio Trotta era ricoverato (infatti l’art. 82 della Costituzione prevede che: “Ciascuna Camera può disporre inchieste su materie di pubblico interesse. A tale scopo nomina fra i propri componenti una commissione formata in modo da rispecchiare la proporzione dei vari gruppi. La commissione di inchiesta procede alle indagini e agli esami con gli stessi poteri e le stesse limitazioni della Autorità giudiziaria.”) e aveva stabilito un incontro con il procuratore capo di Varese (investito della questione dall’ufficio del giudice tutelare del Tribunale) che aveva disposto, una perizia medica urgente per valutare le condizioni di Antonio Trotta, i genitori e la sorella dell’uomo, l’avvocato Cassara’, il direttore sanitario della ”Fondazione Gaetano e Piera Borghi” , la dottoressa Cecilia Morosini e due dei tre medici nominati dalla Procura della Repubblica di Varese.
Il punto di partenza della Commissione in visita a Brebbia, formata oltre che dal presidente Tomassini anche da Valerio Carrara, Sandra Monacelli e Daniele Bosone era che «Qui si sta parlando di un cittadino italiano, che quindi va trattato secondo i dettami dell’articolo 32 della costituzione» anche che «Il nostro scopo è non di risolvere la questione di Antonio Trotta, ma di tutti i cittadini italiani nelle sue condizioni».
La questione era ulteriormente complicata dalla differenza legislativa in materia tra i due Paesi: in Svizzera c’è il suicidio assistito, in Italia è illegale. In Svizzera l’assistenza sanitaria dipende da alcuni parametri, in Italia è gratuita per tutti.
Secondo i genitori di Trotta, in Italia il loro figlio avrebbe beneficiato di un’assistenza migliore e da quando era ricoverato nella clinica vicino a Varese, le cure stavano facendo effetto. La sua vita terrena si è compiuta naturalmente il primo ottobre scorso, nella clinica di Brebbia dov’era ricoverato, circondato dall’affetto dei suoi cari.