Diagnosi pre-impianto, poi non ci si ferma più
Adriano Bompiani è una voce storica della bioetica italiana. È stato il primo presidente del Comitato italiano di bioetica, istituito nel 1990, ha collaborato alla redazione della Convenzione europea sui diritti dell’uomo e la biomedicina e ha preso parte ai lavori del Comitato di bioetica dell’Unesco per la dichiarazione internazionale sul genoma umano e sui diritti dell’uomo.
Professore, la decisione dell’ex ministro Turco sulla diagnosi preimplantatoria è compatibile con l’impianto della legge 40?
“Mi pare proprio di no. Il famoso articolo 13 della legge 40, al punto 2, concede la possibilità di effettuare una ricerca clinica e sperimentale sull’embrione umano, “purché si perseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche ad esse collegate” – cioè la diagnosi serve solo per la terapia – “volte alla tutela della salute e dello sviluppo dell’embrione”. Ora, qualora la diagnosi mettesse in evidenza anomalie genetiche che possono portare a malattie particolarmente gravi, che cosa si fa? In mancanza di terapie attualmente possibili, si pratica solo una diagnosi che serve ad abbandonare l’embrione, se geneticamente malato, non a curarlo”.
Che ricadute potrebbero avere le nuove linee guida?
“La realtà dimostra che laddove si era concessa la diagnosi preimplantatoria solo per “evitare” la trasmissione di malattie particolarmente gravi, e per le quali non si conosceva ancora una terapia, si è andati ben al di là degli intenti iniziali: le diagnosi si sono ampliate per numero di geni interessati – si parla ormai di parecchie centinaia – e naturalmente si è anche diluito quel criterio di “particolare gravità” che era stato il pretesto iniziale. La diagnosi si è estesa a molte altre condizioni, anche alla presenza di singole mutazioni geniche che potrebbero in età avanzata favorire malattie croniche, forse portare all’insorgenza di tumori… in sostanza si sono superati anche quei limiti che – secondo una certa visione del mondo – possedevano ancora un contenuto di proporzionalità”.
Quindi lei crede che non ci si può limitare solamente a diagnosi su poche e gravissime patologie.
«Constato semplicemente che in nessuno Stato europeo, ma nemmeno negli Usa o altrove si è stilato un elenco circoscritto di patologie interessate, di precise condizioni che autorizzino giuridicamente, sotto il profilo medico, la diagnosi preimplantatoria “selettiva” o la proscrivano. I limiti, proposti all’origine, sono stati superati ovunque. C’è una tendenza evidente sia da parte dei ricercatori, sia da parte degli attori del business medico che si viene a creare attorno a queste attività, sia da parte della gente comune, spesso non pienamente consapevole della complessità e delicatezza di certi processi, dell’elevata incertezza ancora per molte diagnosi, ad allargare il campo di applicazione della diagnosi preimplantatoria.
Questo spiega anche perché le prime linee guida, quelle della commissione Sirchia, sono state molto rispettose della lettera della legge 40. Lo spirito di una legge va interpretato sempre in rapporto alla lettera stessa della legge, non ai desideri di ciascuno. Altrimenti si perdono i termini di confronto, i paletti necessari al vivere comune, e si può arrivare a esiti imprevedibili”.
Per il Ministro le nuove linee guida non aprirebbero la strada all’eugenismo. Lei cosa ne pensa?
“C’è molta confusione sulla definizione di eugenismo. A partire dalla seconda guerra mondiale abbiamo assistito a una giusta condanna dell’eugenismo come attività e finalità di uno Stato.
Contemporaneamente si è lasciata la massima tolleranza alle iniziative dei privati, delle singole famiglie, per un processo selettivo “privato”.
Allorché una pratica di selezione embrionale praticata dalla singola famiglia diventa un sistema diffuso, e tollerato dallo Stato, se non incoraggiato, ecco che lo Stato torna ad essere connivente con l’eugenismo”.
Come giudica le modalità dell’intervento del Ministro Turco, che ad alcuni è parso un blitz finale?
“La legge 40 è stato un tentativo, nel complesso riuscito, di trovare un equilibrio tra punti di vista ed esigenze diversi. Il ministro avrebbe potuto manifestare una sua posizione di dissenso in materia, come atto politico di fine mandato – il che sarebbe stato pienamente legittimo –, senza però mettere a repentaglio una complessa costruzione legislativa, oltretutto passata per un referendum nazionale, nel momento del passaggio dei poteri”.