I preti rapiti in Iraq. Poi Sudan, Indonesia, Nigeria
La persecuzione dei cristiani. Chi può intervenire, intervenga
Padre Pius Afas, 60 anni, e padre Mazen Ishoa, 35 anni, sono stati rapiti a Mosul. Nella stessa città, il 3 giugno, fu ucciso padre Ragheed Ganni, cattolico caldeo. Un anno fa, fu rapito e poi decapitato un sacerdote ortodosso. L’attuale vescovo cattolico di Mosul, monsignor Casmoussa, fu a sua volta sequestrato e poi liberato nel gennaio del 2005. E Mosul è la culla del cristianesimo iracheno, il cuore della regione più fittamente popolata dai cristiani, soprattutto dopo che le continue intimidazioni e l’ininterrotta violenza della capitale Baghdad li hanno spinti a un’emigrazione interna che spesso è solo l’anticamera della fuga all’estero, verso la Siria o la Giordania, e da lì in Occidente.
L’esempio di Mosul può ben dare la misura di quanto accade oggi ai cristiani iracheni, che sono ormai a rischio di estinzione, essendosi ridotti a poche decine di migliaia di persone da oltre 1 milione e mezzo che erano prima del 2003. Non a caso papa Benedetto XVI ha già levato due solenni e accorati appelli in loro favore: uno il 9 giugno (ricordando «le critiche condizioni in cui si trovano le comunità cristiane in Iraq»), dopo aver ricevuto George Bush in Vaticano, e l’altro ieri, ricordando padre Afas e padre Ishoa durante l’Angelus, quando ha sottolineato che «continuano a giungere dall’Iraq gravi notizie di attentati e violenze».
Il vero, drammatico e crudele paradosso, per, sta nel fatto che gli eventi iracheni, a confronto con i tormenti inflitti a tanti cristiani sparsi nel mondo, hanno una certa logica. Chi scrive intervistò monsignor Shlemon Warduni, vescovo ausiliare di Baghdad, prima dell’attacco angloamericano del 2003, e lo udì esprimere con grande lucidità il timore che potesse poi succedere quanto ora in effetti succede. In Iraq è in corso da anni una duplice guerra: del terrorismo e della guerriglia contro gli Usa e delle milizie della comunità sunnita contro quelle della comunità sciita (e viceversa). Una comunità minuscola, disarmata e sola come quella cristiana, anche a prescindere dall’abbozzo di “pulizia etnica” che pure in molte aree del Paese viene realizzato ai suoi danni, rischia comunque di finire a pezzi nello scontro di comunità e interessi assai più potenti e per di più armati, finanziati e appoggiati dall’esterno.
Ma che dire del trentennale massacro dei cristiani del Sud Sudan, con almeno 2 milioni di vittime? Delle pressioni quasi insopportabili inflitte alle minoranze cristiane in Indonesia, Bangla Desh, Pakistan (3 milioni su 160 milioni di abitanti), Nigeria (qui i cristiani sono il 40% della popolazione), dove nel solo 2006, dopo la pubblicazione delle vignette danesi su Maometto, furono uccisi 50 cristiani e decine di chiese assaltate o distrutte? Dove la sharia viene agitata come un randello nel Nord del Paese? Della totale chiusura religiosa dell’Arabia Saudita del wahabismo, che pure ha potuto edificare una grande e bella moschea nel cuore di Roma, capitale cristiana del mondo? Tragedie in cui tanta parte hanno il fanatismo, l’ignoranza, l’interpretazione ottusa dei testi sacri. Ma in cui hanno un ruolo, e preciso, anche gli Stati e i Governi, nella migliore delle ipotesi fin troppo disposti a umiliare la libertà di culto (e quindi i diritti umani e civili) per conservare il potere.
È ora che questi Stati e questi Governi ricevano un richiamo pressante e deciso da altri Stati e altri Governi: i nostri. Cioè dagli stessi a cui, molto spesso, devono le proprie fortune e le proprie ricchezze.