Immigrazione nei Paesi europei
Quello dell’immigrazione è oggetto di dibattito non solo nel nostro Paese, ma anche nel resto dell’Europa. Diamo uno sguardo sintetico ad alcuni Stati a noi vicini: Francia, Germania e Gran Bretagna.
In Francia i flussi migratori, ad oggi sempre più consistenti, provengono soprattutto da Paesi sue ex colonie. Un documento governativo redatto nel 2004 stima in circa 250 mila il numero delle persone che vivono illegalmente in Francia: sono i cosiddetti “sans papiers”, “i senza documenti” della Francia. A questi vanno aggiunti coloro che, legalmente, risiedono nei sobborghi, nei quartieri con indici altissimi di disoccupazione. Questi sono “i senza futuro”, coloro che hanno difficoltà a trovare un lavoro per il colore della pelle o il suono del nome.
Le zone marginali della Francia sono una bomba, già scoppiata nel 2005 nelle rivolte delle banlieus. Le rivolte hanno evidenziato tensioni tra le grandi città benestanti e le loro banlieues tristemente ghettizzate, casa di immigranti del Maghreb e dell’Africa Occidentale, che non sono mai stati pienamente integrati nella società francese e sono diventati una sottoclasse per cui disperazione e discriminazione sono la norma.
Per far fronte a questa questione il governo d’oltralpe ha adottato un modello politico d’integrazione, che sottolinea l’inserimento e la partecipazione dei nuovi membri nella società, senza che essi perdano la propria cultura d’origine.
L’integrazione si sviluppa attraverso due dimensioni: la prima, più oggettiva, riguarda la partecipazione dei nuovi membri alle strutture istituzionali e l’adozione di norme comuni; la seconda, soggettiva, prende la forma dello sviluppo d’un sentimento d’appartenenza alla comunità stessa.
I nuovi arrivati devono dunque aderire ad un insieme di valori comuni. Ed é proprio da qui che nasce una delle difficoltà della politica d’integrazione francese. La maggior parte degli immigrati proviene infatti da Paesi in cui il sistema di valori sociali, culturali, giuridici e religiosi é ben lontano dal sistema di valori tradizionalmente dominante in Francia.
Nella notte tra il 23 e il 24 ottobre di questo anno, il parlamento francese ha approvato la nuova legge sull’immigrazione (la quarta in pochi anni), che include il ricorso ai test del Dna per i ricongiungimenti famigliari. Chi richiede il ricongiungimento deve fare domanda per sottoporsi a un test del Dna per certificare la filiazione (ma solo con la madre, la filiazione con il padre è stata abolita). Il test potrà essere effettuato solo previa decisione del tribunale di Nantes (città dove sono concentrati i servizi amministrativi sull’immigrazione in Francia). Potranno avvalersi di questo strumento non solo i famigliari di immigrati, ma anche i congiunti – stranieri – di cittadini francesi.
Per tutti ci sono degli esami da superare, uno sulla lingua francese e uno sui «valori della repubblica»: chi non passa queste prove, deve frequentare un corso di formazione.
La legge impone inoltre un altro limite ai ricongiungimenti famigliari: l’immigrato deve dimostrare non solo di avere un lavoro regolare, ma anche di guadagnare un po’ più dello Smic, il salario minimo. La legge apre inoltre anche la strada a un altro punto controverso: gli istituti di statistica potranno far «apparire le origini razziali o etniche». Molti ricercatori si sono opposti a questa decisione perché va contro tutta la tradizione francese di integrazione attraverso la scuola e il lavoro in un Paese dove una persone su quattro ha origini straniere.
La Germania è un altro di quei Paesi europei dalla lunga tradizione migratoria.
A fine dicembre 2000 risultavano risiedere in Germania, secondo l’Ufficio di Statistica tedesco, 7,3 milioni di stranieri; un numero, tuttavia, non completo, se non si tiene conto dei 3,2 milioni di “Spätaussiedler” (ovvero immigrati di Paesi dell’Europa orientale con avi di origine tedesca, ma senza passaporto tedesco) e del circa un milione di stranieri naturalizzati. A conti fatti, quindi, si arriva a quasi 11 milioni e mezzo.
La normativa odierna prevede che, per ottenere la cittadinanza tedesca, gli immigrati stranieri dovranno in futuro superare test di lingua e seguire speciali corsi per l’apprendimento degli elementi e delle conoscenze di base ritenute necessarie dalle autorità. I “corsi di cittadinanza” – è stato precisato – avranno l’obiettivo principale di fornire conoscenze su temi quali la democrazia, lo stato di diritto, i vari tipi di governo, la soluzione di conflitti nelle società democratiche.
Il 7 novembre 2005 anche Berlino ha registrato moti che hanno emulato la rivolta nelle banlieues francesi.
In Inghilterra l’immigrazione ha risvolti ambigui. Due studi appena pubblicati dipingono infatti un quadro assai contraddittorio sull’ondata migratoria – proveniente specialmente dall’Europa dell’Est – che ha colpito il Paese dall’inizio degli anni 2000.
Secondo dati del ministero del Tesoro, l’immigrazione ha dato un forte contributo all’economia del Paese, aggiungendo 6 miliardi di sterline (quasi 9 miliardi di euro) all’anno al prodotto nazionale.
L’immigrazione crea però problemi, alcuni molto seri. Secondo un altro rapporto preparato dal ministero degli Interni, lo Home Office, il forte flusso migratorio sta creando forti pressioni sugli alloggi, sul sistema educativo e sull’ordine pubblico. Redatto dalle autorità regionali, il rapporto nota che in cinque regioni su otto vi sono problemi sul fronte della criminalità e l’istruzione e in sei su otto sulla sanità. In sette regioni su otto vengono registrati problemi sul fronte degli alloggi.
Diverse sono dunque le caratteristiche che accomunano questi Paesi europei. Innanzitutto il fatto che in tutti gli Stati è ancora lungo e travagliato il cammino per creare una legislazione seria e veramente rispondente alle esigenze sia dei residenti che dei migrati.
L’impressione è infatti che molto spesso la legge si limita ad intervenire solo quando avvengono fatti gravi, creando per questo una situazione altalenante: nei periodi di “calma” le maglie legislative sembrano allargarsi, nei momenti di emergenza la normativa diventa spesso severa.
Rimane il fatto che in 25 anni sono stati regolarizzati 4 milioni di immigrati grazie a 20 programmi di regolarizzazione.
In tutti i Paesi, inoltre, si parla di integrazione, che è l’obiettivo di tutte le politiche.
Ma in quanti casi se ne può davvero parlare?
Spesso più che di integrazione si tratta di assimilazione o, ancora peggio, di accettazione irrazionale dei valori degli immigrati a scapito delle tradizioni del paese accogliente (ricordiamo ad esempio il dibattito sulla questione della presenza della croce in classe o del presepio a Natale).
Il fallimento di queste politiche sono ben evidenti nelle rivolte che scoppiano purtroppo periodicamente nelle periferie delle grandi città e nei disagi che molti immigrati si trovano ancora ad affrontare.