Se a promuovere l’iniziativa romana è un islamico
In piazza per i cristiani liberi
Nell’Afghanistan «liberato» dai taleban, ogni convertito al cristianesimo rischia la pena di morte: il temerario Abdul Rahman, che venne scoperto e denunciato dai familiari, oggi vive sotto protezione in Italia. Nell’Iraq che dopo la dittatura di Saddam Hussein ha ritrovato la democrazia, centinaia di migliaia di fedeli delle varie Chiese – messi nel mirino dagli estremisti islamici – hanno già scelto la via della fuga, mentre coraggiosi sacerdoti che rimangono con il proprio gregge vengono rapiti o uccisi.
Nel Libano, ex «Svizzera d’Asia» segnata dalla guerra civile, i cristiani sono passati dalla maggioranza della popolazione al 38 per cento. La situazione non è migliore per l’ormai esigua minoranza dei Territori palestinesi o per la comunità pachistana, stretta tra intolleranza e leggi restrittive. In tutto il Medio Oriente, e anche oltre, in tutto il Continente, le persecuzioni contro i seguaci di Gesù si fanno più aspre e diffuse.
La denuncia che si è levata ieri sera da piazza Santi Apostoli in Roma, dove ci si è riuniti sotto lo slogan «salviamo i cristiani», è suonata come un richiamo opportuno e doveroso, non privo di spunti nuovi e persino utilmente paradossali. La voce del Papa si leva instancabilmente per assicurare vicinanza e chiedere protezione, la diplomazia vaticana esplora con determinazione tutti i canali praticabili, gruppi e singoli cattolici sono mobilitati per una solidarietà fattiva e concreta. Alla manifestazione promossa da Magdi Allam, intellettuale laico di origine egiziana, hanno però aderito – e qui sta il passo avanti – anche esponenti del mondo musulmano (ed ebraico).
Non si può, inoltre, non rilevare che a cercare una mobilitazione pubblica, non confessionale, sia stato uno studioso della realtà islamica consapevole del valore della libertà religiosa e della presenza cristiana nel Medio Oriente. E non qualche esponente del ceto politico o culturale ben radicato nella tradizione occidentale che tanto deve proprio al cristianesimo nato nelle terre d’Oriente. Una circostanza capace di alimentare il sospetto, già avanzato a proposito della vicenda di padre Bossi rapito nelle Filippine, che nel nostro Paese un certo pregiudizio anticattolico, rafforzatosi in questi anni, oscuri la tragedia di milioni di credenti a rischio della vita per la loro fede.
Tenere alta l’attenzione, però, costituisce solo il primo atto. Servono anche azioni, prima che l’esodo tragicamente si completi. A volte viene invocata una reciprocità rispetto agli immigrati musulmani: se vogliono godere di tutti i diritti, i loro Paesi d’origine concedano pieno rispetto a chi segue altri culti. Una forma di ritorsione inaccettabile, dato che le libertà universali che vigono nella nostra società sono per noi una conquista e un vanto, non riducibili a merce di scambio. Ben diverso è lo strumento delle relazioni tra Stati e degli accordi commerciali, il vero tasto su cui si può agire, modulando fermezza e concessioni, con l’obiettivo di estendere progressivamente quei principi di tolleranza negati in molti Paesi.
Quando, ad esempio, si stanziano gli aiuti che evitano il collasso dell’Autorità palestinese, non sarebbe fuori luogo chiedere una maggiore tutela dei cristiani di Betlemme e di Gaza. Senza dimenticare che a Beirut abbiamo inviato una consistente forza di pace e che a Kabul siamo impegnati a ricostruire il sistema giudiziario, all’interno del quale non possono rimanere ombre di discriminazioni e tutti devono essere uguali per legge. Su altri tavoli, la leva sarà quella economica: pretendere garanzie per chi chiede solo libertà di professare la propria religione vale il sacrificio di qualche, pur lucrosa, commessa. Soltanto così le voci di ieri sera arriveranno a destinazione.