Morte d’un buon samaritano
Morire di super-lavoro a Napoli. E se succede tra le corsie di un ospedale, dove la «malasanità» riesce sempre a trovare ricovero, e la vittima non è tra i pazienti ma tra i «camici bianchi», ecco venir meno tutti i parametri ordinari, sempre pronti e allineati per replicare, ogni volta che occorre, il «cliché» di una città fatta a suo modo, e che proprio non vuol saperne di stare alle regole: neppure a quelle che si è cucita addosso da sola, e che la rendono pressocché unica, con la sua storia e le sue piccole e grandi vicende cosparse sempre di punti esclamativi.
A suo modo, neppure il professore Filippo Minieri, chirurgo vascolare, 60 anni, ha voluto saperne di stare alle regole. È morto fulminato da un infarto sul proprio luogo di lavoro, il «Cardarelli», l’ospedale più grande di tutto il Mezzogiorno, e – proprio per questo – inevitabile bacino di accoglienza dei ritardi e delle inadempienze di una sanità che, particolarmente in Campania, è vicina al tracollo.
Il professor Minieri è rimasto per undici ore di fila al lavoro. Un chirurgo non può certo badare all’orologio, ma neppure è immune dai limiti dello stress e della fatica che, infatti, gli sono stati fatali. A suo modo – se visto da un particolare punto di osservazione – anche questo sacrificio può essere catalogato tra i casi di «malasanità». L’organizzazione del lavoro è parte integrante del buon funzionamento di ogni nosocomio. Nel tragico caso di Minieri, qualcosa evidentemente non ha funzionato. L’Ordine dei Medici, protestando per i turni di lavoro, definiti massacranti, ha parlato di «morte bianca».
Posta semplicemente così, la vicenda servirebbe solo ad alimentare il fuoco delle polemiche sulla disastrata sanità del Mezzogiorno e della Campania in particolare. Il sacrificio del professor Minieri significa invece qualcosa in più e impone di puntare lo sguardo al di là dell’efficienza delle strutture – obiettivo, tuttavia, da perseguire senza soste e tentennamenti.
Il chirurgo napoletano non è incappato nella morsa della disorganizzazione, che pure gli si è stretta intorno: con qualche «accortezza» poteva forse evitarla, o tenersene al riparo.
È stata però di altro tipo la morsa dalla quale non ha potuto – e voluto – sottrarsi: quella di un altruismo e di una generosità che, nella professione medica, valgono ancora più degli utensili del mestiere. Il bisturi incide nella carne. Un medico che si dà senza risparmio ai suoi pazienti è il «samaritano» che continua a passare ancora oggi accanto a ogni sofferenza.
Sarà difficile che un piano sanitario possa contemplare, tra i legittimi vincoli sindacali, anche situazioni estreme come quelle del professor Minieri, morto di superlavoro al «Cardarelli» di Napoli, nell’affanno di concitate rincorse tra sala operatoria, reparto e ambulatori.
Ma si è di fronte a una vicenda tanto tragica quanto emblematica, nel senso delle sfide che pone e dei luoghi comuni che ribalta, pur nella patria delle contraddizioni che resta Napoli. Dov’è possibile morire di «superlavoro». Ma in realtà la diagnosi è da correggere: il «referto» parla di forti sintomi di generosità e di dedizione. A Napoli non è merce in via d’estinzione. Ed è anzi sparsa sul territorio senza forme di particolare distinzione.
Anche una morte in ospedale, in una città così, può dar luogo a un’impensata variazione sul tema: si resta in bilico sulla «malasanità», ma da un orizzonte pur confuso spunta tutt’altro. Un chirurgo che tocca il cuore. E senza mettere mano al bisturi.
Rassegna Stampa
Buddisti e cristiani insieme per educare alla speranza
Nel messaggio del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso per la festa del Vesak l’invito ad attingere ai valori trascendenti delle rispettive tradizioni per “rischiarare il cammino dell’umanità e trionfare sul vuoto spirituale che causa tanto male e sofferenze”.