Per le suore rapite va intensificata la preghiera
«Sappiamo che sono vive, e stanno bene». L’ambasciatore italiano in Kenya si lascia andare a un’affermazione certa, che subito sembra sentirsi quasi in dovere di attenuare: «Compatibilmente – aggiunge infatti il diplomatico – col fatto che le rapite hanno 67 e 60 anni». Per Margherita Boniver, inviato del ministro degli Esteri in Kenya, «è stato fatto tutto il possibile, ma il quadro è ancora fosco». E dunque anche durante la missione italiana sulle tracce delle due suore rapite a El Wak il 9 novembre scorso, luce e ombra si alternano.
Aggrappiamoci alle luci: due operatori sanitari stranieri, è vero, sono stati recentemente liberati nella stessa regione. E un qualche contatto deve pure esistere, se è possibile affermare che le donne sono vive. Ma non ignoriamo le ombre: Caterina Giraudo e Maria Teresa Olivero si troverebbero in territorio somalo, in un’area fuori dal controllo del governo provvisorio del travagliato Paese, e in mano alle bande estremiste delle Corti Islamiche. Più buia ancora la situazione se quella fascia di Corno d’Africa che nasconde la prigione delle italiane è davvero a un passo, dice la Boniver, dal precipitare in una repubblica islamica. E dunque, se le due suore da una vita in Africa fossero nostre sorelle – e per molti di noi davvero lo sono – dal rapporto di questa missione a Nairobi usciremmo divisi tra la speranza, piccola ma precisa, accesa da quella frase – «Sono vive» – e l’oscurità insondabile di cento incognite fuori dalla possibilità di ogni controllo: una terra, la Somalia meridionale, oggi davvero senza tetto né legge; e percorsa, nell’anarchia e nella violenza, dall’ansia di una legge assoluta, totalizzante, probabilmente feroce, certamente non amichevole con i cristiani. È, questo rapporto dopo due mesi di attesa, come quando sulla salute di una persona cara cala una diagnosi il cui nome spaventa, e tuttavia i medici dicono che sussiste una speranza, e che l’esito, qualche volta, è benigno.
E si affannano allora i parenti a chiedere percentuali e statistiche: quanto è grande, realmente, quella fetta di speranza lasciata balenare in mezzo al buio? Ma per quanto i medici si sforzino di spiegare ciò che spesso nemmeno loro sanno con assoluta certezza, per quanto si soppesino e confrontino le percentuali di guarigione, non se ne è pienamente rassicurati. «Sono vive, il quadro però è ancora fosco». Come davanti a un responso che ci lasci il fiato di un’attesa nonostante tutto benigna, così possiamo pensare alle due suore con i capelli grigi, prigioniere in qualche oscuro anfratto di savana. Forse non bastano, quelle parole dopo due mesi, per un ottimismo ragionevole. Bastano, però, per un’altra cosa: per sperare. Radicale attitudine degli uomini e straordinaria virtù cristiana: sperare anche, e tanto più, quando non è cosa del tutto ragionevole; sperare e pregare ‘contro ogni speranza’. Domandare comunque, al di là di ogni sensata obiezione: a mani tese e vuote. Con quella fede che, diceva sant’Ambrogio, produce i miracoli.
Con l’insistenza del bussare, anche se la porta resta chiusa. Senza pretesa, ma nella pura domanda. Forse così sanno pregare Caterina e Maria Teresa, dopo vent’anni d’Africa. Così vorremmo sapere pregare noi per la loro sorte in quella terra lontana. Aggrappati a due parole: «Sono vive», come a una corda esile eppure forte, da cui non mollare la presa.
Rassegna Stampa
Buddisti e cristiani insieme per educare alla speranza
Nel messaggio del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso per la festa del Vesak l’invito ad attingere ai valori trascendenti delle rispettive tradizioni per “rischiarare il cammino dell’umanità e trionfare sul vuoto spirituale che causa tanto male e sofferenze”.