Quel «desiderio» di morte
Ci tocca vivere in una epoca strana. Esaltante e inquietante. Di rovesciamenti. Di nebbie. Di ricapitolazioni. Un’epoca in cui le parole elementari dell’esistenza umana sono diventate terreno di diatriba. Un’epoca in cui con le leggi non si deve solo arginare le malefatte, le delinquenze: ma con la legge si devono mettere i sacchi sabbia, rinforzare gli argini, mettere paglia e terrapieni perché non dilaghi una strano desiderio di morte. Ormai si tratta di dover riscoprire, anche attraverso il dibattito giuridico, e poi parlamentare e quindi politico, il significato di parole elementari. Ci è dato di vivere questo tempo. Può essere vissuto come una grande occasione per rimettere a fuoco le parole principali della esperienza umana.
Sono in “crisi” (cioè in verifica, in messa alla prova) non solo le parole che indicano le più alte questioni – come Dio o destino – ma anche quelle elementari, che sono la pelle, la materia, il sangue normale della esistenza umana: la parola figlio, la parola nascita. E la parola morte. Parole intorno a cui nei millenni l’arte e il pensiero si sono incendiati di bellezza e di forza. E che sono state visitate e lette secondo infinite prospettive. Ma mai rovesciate nel loro significato essenziale. Per un ebreo, un greco o un romano, la morte – gloriosa o infame, eroica o banale – era sempre un vincere dell’ombra sulla luce, un venir meno. Una cosa indesiderabile in sé. E la cura, il prendersi carico del penare e del soffrire fino agli estremi passi è sempre stato un nobile ufficio. La morte – lungi dall’essere un atto vergognoso, nascosto, da vivere in una solitudine definitiva – era vissuta come momento dell’appartenenza a una comunità, a una civis, a una rete di relazioni piene e significative. E molto spesso è ancora vissuta così.
Ma altrettanto spesso invece ci troviamo a discutere di una morte che viene scambiata per quel che non è, invocata come liberazione in nome della legge. Ci ragiono su, come tanti. E mi rendo conto di non essere stato capito da più di qualcuno e persino da qualche titolista. Ma ciò che penso, e dico, è che oggi “dobbiamo fare” una legge: la più equa, semplice e avveduta possibile. Dobbiamo tornare ad averla perché sul fine vita si sono mosse le azioni – forzando la legge – di chi ha voluto render la morte procurata una liberazione dell’individuo, una specie di prevalere della luce su un’ombra (la vita quando anche sofferente).
Si è mosso un plotone di opinionisti. Un manipolo di magistrati. Una carovana di nuovi santoni. Per far passare la morte per quel che non è. E la persona per quel che non è: una monade, un essere irrelato, uno che non è nelle mani di nessuno, neanche nelle mani di chi lo ama, di chi lo cura, di chi ne può sostenere fatiche e attraversamenti dolorosi.
Si dice all’uomo che ha preteso di gestire l’economia, di gestire il pianeta, di gestire il corpo, il nascere: ora gestisci anche la morte. E per andare contro ogni evidenza si è sollevato un polverone. Come se in Italia ci fosse qualcuno – noi, i cattolici – che vuole obbligare qualcun altro a vivere in condizioni infernali, non si capisce poi perché. Come se ci fosse qualcuno che vuole togliere un diritto. Mentre è esattamente il contrario: si vuole proteggere chi non è in condizione di esercitare un diritto nel momento della sua massima debolezza. Nella legge in discussione, improntata al buon senso, si intende salvaguardare un diritto alla vita e alla cura per l’uomo nel momento in cui è nella reale situazione di bisogno e di affidamento. Non quando la ha immaginata.
Ma nel momento in cui può diventare – come successo con il placet di certa magistratura – preda della ideologia o della incapacità o della debolezza di un altro. Per avversare l’evidenza che la morte è un ombra contro cui lottare, si è cominciato a blaterare di diritti negati. Come se dar da bere a un malato, idratarlo, sia conculcare un diritto, invece che un dovere non solo della medicina ma dell’esser uomini. Una forzatura della legge che in passato ha consentito una eutanasia e che ha innalzato come esempio un gesto che, grazie a Dio, sinora nessuno in Italia ha più seguito. A questa e ad altre possibili forzature può ora rispondere una buona legge. Una legge che non intende obbligare nessuno a una certa visione della vita, poiché non sono le leggi a toccare i cuori degli uomini. Ma intende far pensare a tutti che l’uomo debole va onorato e accudito. A qualunque costo. Se no il prezzo della vita lo finirà per fissare chi ha il potere.
Rassegna Stampa
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