A scuola in tempo di Covid

All’improvviso, insegnanti, bambini e ragazzi sono stati orfani gli uni degli altri...

24 Novembre 2020

Tutti abbiamo ben presente cosa è accaduto dai primi giorni di marzo: uno sconvolgimento globale, uno stravolgimento generale a causa della pandemia. Paura, incertezza, sbandamento, ci hanno costantemente battuto la carne, provocato a guardare in faccia chi è la consistenza di tutto e dove poggia il nostro vivere, personale e comunitario. Tutti gli ambiti della vita sociale sono stati visceralmente sconvolti avendo dovuto ribaltare schemi e sistemi più o meno funzionanti per rispondere all’emergenza Covid-19.

da Nel Frammento anno XVIII numero 3/2020

di Barbara Falgiani

Uno degli ambiti profondamente toccato alla radice è stato quello della scuola. Nel giro di poche ore ci siamo ritrovati tutti a casa per un’iniziale prudenziale chiusura degli Istituti Scolastici che poi è proceduta con il lockdown generale di tutto il nostro Paese, come mai era avvenuto prima. Un ribaltamento viscerale, senza programmi già stabiliti per l’immediato (e anche successivo) affronto di questa situazione. All’improvviso, insegnanti, bambini e ragazzi sono stati orfani gli uni degli altri; la scuola, luogo per eccellenza di incontro, socializzazione, di crescita umana, assente dei suoi protagonisti. Dentro una tempistica repentina dettata dalla situazione, il Ministero e i vari dirigenti degli Istituti Scolastici hanno iniziato a gettare le basi per il ripensamento della didattica da vivere a distanza. Da insegnante e da mamma lo stravolgimento è stato duplice. Ho visto di più come questo richiamo che viene dalla realtà è di fatto sempre presente: se uno fosse leale con una qualsiasi giornata vedrebbe con semplicità come i “nostri programmi” vengono continuamente sconvolti, nonostante uno abbia (e debba comunque, per non vivere totalmente nello spontaneismo o nell’istintività) pensato puntualmente quanto da vivere. Per fare un esempio semplice, posso dire di averlo visto proprio queste mattine andando al lavoro: la sistemazione del manto stradale che crea un traffico imprevedibile mi ha portato, alcune volte,ad arrivare appena in tempo a scuola, altre ("conoscendo" la situazione) a partire prima da casa e ad arrivare troppo presto, perché non ho invece trovato ingorghi e ho così dovuto attendere a lungo in macchina per il divieto di accedere alle aule prima delle lezioni a causa della normativa anti Covid. Il richiamo che sottende la “piccolezza” di questi particolari è lo stesso che c’è in quelli più “grandi”. Nel tempo di lockdown, uno dei fattori che di più mi ha colpito - di me e nel dialogo con alcuni amici, costretti come me a casa con i loro figli in preda a video lezioni e a compiti da svolgere senza “troppe spiegazioni” - è stato riscoprire “la vita scolastica” di questi bambini e ragazzi. In fondo in fondo, anche nei pomeriggi vissuti quando tutto sembrava normale, pur facendo i compiti con loro, c’era una sorta di “assopimento educativo” nei confronti della scuola; sottilmente, i docenti erano titolari dell’educazione scolastica dei nostri figli e a noi “competeva” soltanto stargli accanto per sostenerli ma di fatto entrando poco in modalità educative, scelte didattiche, coinvolgimento con gli insegnanti. La nuova condizione di lavoro ha fatto venire a galla una sorta di inconsapevolezza che, per chi lo ha voluto, ha scosso profondamente la vita di tanti genitori. Ci si è accorti di come gli inseganti si rapportano con i nostri figli, umanamente e didatticamente. In questo periodo di distanza ho visto genitori dei miei alunni protagonisti del rapporto con i loro figli molto più di quando avevamo la possibilità di vederci di persona ai colloqui.

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Tanti di loro hanno domandato come mai un argomento veniva proposto in quel modo piuttosto che in un altro, hanno chiesto cosa di un testo doveva essere approfondito, hanno imparato ad usare registri elettronici e piattaforme digitali in modo lodevole, si sono trovati coinvolti e tirati dentro il lavoro scolastico anche dai loro stessi figli. Costretti dalla necessità, in tanti genitori c’è stato un risveglio, un’avventura risorpresa, che domando, a partire da me, di mantenere viva ancora oggi dentro una situazione ancora incerta e in fermento. Questo tempo ha rimesso in primo piano proprio l’esigenza di quell’alleanza educativa con le famiglie, il bisogno di ricomporre “il patto educativo (come disse Papa Francesco a Roma il 20 maggio 2015) che oggi si è rotto (…). Di fatto, si è aperta una frattura tra la famiglia e la società, tra la famiglia e la scuola. (…) Se l’educazione familiare ritrova la fierezza del suo protagonismo, molte cose cambieranno in meglio, per i genitori incerti e per i figli delusi. È ora che i padri e le madri ritornino dal loro esilio - perché si sono autoesiliati dall’educazione dei figli -, e riassumano pienamente il loro luogo educativo”. La stessa sorpresa l’ho vissuta proprio con i bambini. Sì, è vero che noi insegnanti ci siamo dovuti mettere al lavoro per ripensare la didattica (rinnovando proposte un po’ “standardizzate” negli anni passati, al passo di una tecnologia che viaggia a velocità altissime e che ha comportato un aggiornamento continuo per chi non era avvezzo agli strumenti tecnici), ma quello che mi porto di più è che ogni giorno la più grande “preoccupazione” era stare con i bambini, aspettarli tutti per la video lezione, domandarci perché quell’alunno non ci fosse, accoglierci nella condivisione di quello che si stava vivendo. Ci siamo scoperti preziosi tutti, gli uni per gli altri. Non che prima non accadesse, ma lo abbiamo fatto con più desiderio, con il bisogno pressante della nostra umanità fragile, con la bellezza di chi va all’essenziale in un momento che non ammetteva “perdite di tempo”. Il cuore della questione era non perdere nessuno. Alcuni bambini hanno oggettivamente fatto difficoltà nei collegamenti, per vari motivi, familiari, umani (molti di loro hanno avuto a che fare con l’esperienza diretta della sofferenza per la pandemia) o per mancanza di strumentazioni, ma fosse solo per qualche minuto trascorso insieme, hanno dato tutto loro stessi. Abbiamo scommesso sulla loro libertà di starci da protagonisti o di subire la situazione. E ne abbiamo viste delle belle: alcuni di quelli che normalmente erano in ombra, sono emersi maggiormente, altri, che con la loro esuberanza in classe davano fastidio a chiunque, hanno imparato a rispettarsi per usare al meglio il tempo a disposizione. E anche se qualcuno, prendendo confidenza con gli strumenti e con la nuova modalità, ha mostrato insofferenza, indifferenza, pigrizia, fino in fondo non ha mai mollato quel luogo che eravamo come appartenenza reciproca. Il timore di “perdere” alcuni di loro, più in difficoltà, ha ancora oggi, che loro sono passati alla scuola secondaria e non sono più miei alunni, il documento - nel cercarci, nel voler condividere come sta procedendo questo inizio di anno - che questo tempo ha seminato germi di crescita, di vita, anche quando sembrava non fosse così. Da qualche settimana siamo tornati tra i banchi di scuola; oso dire che più di prima siamo chiamati a vivere il cammino intrapreso in questi mesi per essere vigili a non perdere quanto vissuto, non pensando che ci sia un prima e un dopo, ma un continuo richiamo ad una posizione di apertura. Il tempo che abbiamo ricominciato a vivere insieme a scuola è pieno di mille particolari che stanno emergendo a piè sospinto mostrando che, se da una parte si è ancora tanto al lavoro - perché la precarietà della situazione è ancora molto grande -, dall’altra ci si ritrova “seduti” e scontati su qualcosa che sembra essere superato tornando in classe. In tanti, in qualche modo, ci si è trovati coinvolti nelle questioni legate a questo tempo di riapertura (dalle mascherine da indossare ai banchi adeguati per garantire il distanziamento, dall’applicazione dei protocolli Covid alla programmazione della didattica integrata nel caso di nuove chiusure); e, sotto sotto, non possiamo nascondere la paura di ammalarsi o di essere veicolo di contagio per i nostri cari. Appena un nostro alunno o collega tossisce o starnutisce, ci viene l’istinto di allontanarci o di pensare che possa essere ammalato; ci ritroviamo, più o meno consapevolmente, uno sguardo viziato nei confronti dell’altro, visto più come fonte di contagio che come dono per quello che è. Ed eccoci, allora, ancora chiamati in gioco a verificare la nostra consistenza dove risiede. Dove sono andati a finire i nostri sguardi commossi degli ultimi giorni dello scorso anno quando salutavamo i nostri alunni e quelli di quest’anno che abbiamo avuto appena li abbiamo rivisti entrare a scuola? Occorre essere vigili, seri con questa nostra umanità.Così come dentro tutta la realtà che abbiamo di fronte, attenti, responsabili, come lo stesso papa Francesco ha sottolineato più volte, essendo il primo testimone di cosa significhi vivere di fede anche dentro l’applicazione di protocolli sanitari. In una continua apertura, da domandare, si acuisce lo sguardo verso l’altro, magari più debole e fragile, si conoscono e accolgono le sensibilità delle persone, si è più intelligenti anche nelle proposte didattiche, insomma, ci si ritrova in gioco, liberi, certi, responsabili, con i bambini, con il loro genitori che purtroppo dobbiamo incontrare su piattaforme digitali. Vedo di più come “quell’esperienza di buio e di tenebre, quel profondo stato di paura e di angoscia che così spesso ci assedia dappertutto, quella paura di non farcela, di cadere, di affogare, quella paura di affrontare la vita per quella che è, di rapportarsi con la realtà per quella che è, solo nella presenza e nella compagnia di Gesù che cammina con noi, trovano la loro unica e reale capacità di affronto e di vittoria” (Nicolino Pompei, Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino?).

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La curva dei contagi sta aumentando ogni giorno, molte classi cominciano ad essere in quarantena. Il veicolo più comune del contagio oggi sono proprio i nostri studenti, i nostri figli. Come insegnanti siamo chiamati a mostrare cosa sia vivere di fede, continuando a lavorare, in modo serio e responsabile, perché la scuola sia un luogo di speranza, di testimonianza e sostegno vicendevole, sia una presenza viva, sempre, comunque, in presenza o nuovamente “a distanza”. Così Nicolino ci chiese una volta: “Vi pongo una domanda: ma i tuoi figli o i tuoi parrocchiani, i giovani o le persone che incontri di cosa hanno bisogno? Loro - come me e te - hanno bisogno sempre di qualcuno da guardare come generato continuamente alla vita. Hanno bisogno di guardare in me e te l’Avvenimento vivo e determinante ora la mia e la tua vita. Hanno bisogno di incontrare uno sguardo umano a cui il cuore non può esistere per quanto rispondente e corrispondente alla originale esigenza di felicità. Non hanno bisogno di una bocca che sappia discorrere sulla vita o di parole astratte che la descrivano. Ma di avere davanti a loro un’esperienza umana viva, libera ed intelligente, che li aiuti a vivere il dinamismo della ragione, della libertà, dell’amore, dentro una strada. Una strada, un metodo,una continua educazione, innanzitutto attuali e vivi in noi, e quindi nella possibilità di essere verificati come i più adeguati a saper affrontare e vivere il drammatico rapporto con la realtà tutta. Un’umanità viva, piena e totale davanti ai loro occhi, che gli faccia incontrare ora, in ogni ora, Gesù come Presenza reale e concreta, e capire cosa significa, che cosa porta alla vita amare Gesù, cosa comporta consegnare tutto se stessi alla presenza e alla sequela di quell’Uomo di nome Gesù. Hanno bisogno sempre di quello di cui noi in ogni istante abbiamo bisogno e siamo desiderio sempre” (Nicolino Pompei, La bocca non sa dire né la parola esprimere: solo chi lo prova può credere cosa sia amare Gesù). Che ognuno di noi possa essere nell’esperienza di questa Presenza viva e così esserne segno per chiunque, dai colleghi agli alunni. E allora, sì, buon anno scolastico a ciascuno!

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