Alla ricerca di una scintilla di speranza

CRACKING ART: L’INVASIONE

Utilizzo di materiali plastici riciclabili per la realizzazione di sculture animali

14 Febbraio 2019

Riceviamo e pubblichiamo il contributo che ci ha inviato la nostra amica Simona,  insegnante di Storia dell'arte

CRACKING ART: L’INVASIONE
Per il terzo anno consecutivo abbiamo avuto l’occasione di vivere, nel Tempo di Natale, il gesto del presepe vivente nella suggestiva cornice della città di Ascoli Piceno. Dopo vari sopralluoghi, la scelta è caduta nel centralissimo giardino della Pinacoteca Civica in Piazza Arringo, che ben si presta per la rappresentazione del presepe. Mentre ci accingiamo a trasportare fieno, strutture in legno, tavoli, sedie, canne di bambù, arnesi da falegname, anfore, stoffe di ogni tipo, contemporaneamente girano per la città furgoni con delle giganti riproduzioni in plastica di coccodrilli, lupi, tartarughe... le dimensioni e i colori decisi e volutamente antinaturalistici del verde, rosso, blu...non fanno passare il fatto inosservato. Una strana invasione che ci ha inevitabilmente incuriosito. Provocata ulteriormente da un messaggio di una cara amica che mi scriveva “cosa ne pensi?” Ci sono voluta andare a fondo. Scopro quindi che gli animali in questione sono il prodotto di un vero e proprio movimento che prende il nome di Cracking Art. Nato in Italia nel 1993, si è affermato nel campo dell’arte con risonanze a livello nazionale e internazionale. Dal sito testualmente si evince che: “l’intenzione è quella di cambiare radicalmente la storia dell’arte attraverso un forte impegno sociale e ambientale che unito all’utilizzo rivoluzionario dei materiali plastici mette in evidenza il rapporto sempre più stretto tra vita naturale e realtà artificiale”. Il termine “crack” inglese descrive “l’atto di incrinarsi, spezzarsi, rompersi, cedere, crollare...Cracking è il divario dell’uomo contemporaneo, dibattuto tra la naturalità originaria e un futuro sempre più artificiale”. Il movimento si prefissa anche un impegno sociale e ambientale volendo mostrare “un’accettazione consapevole della inevitabilità del fatto che il nostro mondo stia diventando sempre più artificiale”. Nella storia dell’arte le rivoluzioni artistiche non sono state sempre ben accolte fin dalla loro nascita. Tendenzialmente nascono dalla proposta di giovani artisti che cercano di ribaltare le concezioni stantie del tempo, si ribellano ai formalismi, ad un certo ripiegamento sociale delle classi più alte a discapito di quelle più povere, ad un pensiero ridotto alla conservazione di interessi personali a discapito della collettività, ad una società refrattaria al cambiamento. Movimenti artistici che oggi invece ammiriamo come gli Impressionisti, o artisti ormai consacrati da pubblico e critica come Caravaggio, Van Gogh. Solo per citarne alcuni. Per questo è sempre bene non fermarsi all’apparenza e cercare di comprendere cosa sta al fondo di determinate scelte, per poter dare un giudizio che non sia affrettato. ABBIAMO BISOGNO DI BELLEZZA? Io lavoro a scuola ed è un ambiente che ha la positiva caratteristica di essere un luogo inquieto, difficile ai formalismi e alle convenzioni. La presenza costante dei ragazzi lo rende irriducibilmente vivo, in un continuo fermento, per molti adulti spesso fastidioso, permanentemente teso ad una ancora sconosciuta eppure attesa promessa di felicità. Penso alle due esperienze vissute recentemente: le lezioni su Gaudí e la Sagrada Familia in alcune classi, ospitata da una collega, e la mostra Numeri... non a caso. Bellezza, armonia e meraviglia nella “matematica” del creato” esposta tra i corridoi della scuola per due mesi. È bastato riporre al centro la questione ontologica dell’uomo, di ogni uomo, di noi stessi, far risentire la vita che scalpita dentro quelle discipline che ci appaiono noiose e distanti, per vedere riaccendersi sguardi spenti e disinteressati e far emergere domande, semplici e profonde. Oppure vedere come classi intere per le quali il docente aveva anticipatamente manifestato una piccola preoccupazione, conoscendone l’irrequietezza, abbiano seguito mostrando un incredibile e inaspettato interesse. Cosa è più interessante di “ciò” che ogni giorno il nostro cuore desidera e anela. Cosa è più interessante se non l’esperienza di una permanente bellezza che allieti e scaldi il nostro cuore e lo soddisfi pienamente. Esiste una bellezza che non sia passeggera ma duratura? Esiste l’esperienza di un “per sempre”?

UN MOVIMENTO CHE GUARDA AGLI ANIMALI: PERCHÉ?
La caratteristica di questo movimento è di riprodurre esclusivamente animali. Navigando nel sito mi imbatto dunque in questa domanda “Perché guardiamo agli animali?”. La risposta è affidata ad un articolo del controverso critico britannico John Peter Berger. Berger partendo da un’esperienza personale arriva alla conclusione che qualsiasi manufatto artigianale, in quanto tale, è in sé una forma d’arte perché, nonostante la ripetizione dei gesti di certi manufatti, essi restano delle opere uniche. Ma per il critico l’estetica dell’arte che presuppone meraviglia, stupore per essere tale e rispondere alla sua funzione e alla ragione della sua creazione, non può prescindere dal contatto con la realtà. “Emozioni estetiche”, come le definisce il critico britannico, che si possono provare anche di fronte a un tramonto o un albero da frutta, alla natura in genere. Una natura che può essere benevola come, al contrario, spietata, in cui, proprio dentro il convivere di questi opposti, possiamo incontrare improvvisa e inaspettata la bellezza! “La burrasca si estingue da sé, il colore del mare passa dal grigio merda al blu acquamarina. Sotto il masso trascinato dalla valanga cresce un fiore. Sopra la baraccopoli sorge la luna... Comunque la si incontri, la bellezza è sempre un’eccezione, sempre a dispetto di. È questo che ci commuove”. Di conseguenza “La prima necessità della vita è un riparo. Un riparo contro la natura. La prima preghiera è una richiesta di protezione. Il primo segno di vita è il dolore”. Eppure “I fiori sono una promessa di fertilità, un tramonto ci ricorda il fuoco e il calore, il chiaro di luna rende meno oscura la notte”. E dentro la percezione di qualcosa, o forse e meglio qualcuno, che ci parla dentro questa realtà che ci fa vibrare di meraviglia, stupore, ma in un momento di tempo che risulta, a volte con amara constatazione, transitorio. Allora è come se la creazione di un oggetto da parte dell’uomo (opera d’arte) volesse non solo riproporre quell'emozione estetica, ma addirittura renderla permanente assimilandoci, in questa nuova creazione, al creatore. John Berger, innanzitutto convinto che la funzione prima dell’arte debba essere sociale, non può negare la forza intrinseca dell’arte di sollevare la “questione del diritto ontologico dell’uomo” con il fine di proporre un mondo alternativo o, e questo lo ritengo più interessante e fondamentale perché abbia anche una funzione sociale, per “amplificare, confermare, rendere sociale la fugace speranza offerta dalla natura”. Così l’arte “Afferma l’uomo nella speranza di ricevere una risposta più certa… L’aspetto trascendentale dell’arte è sempre una forma di preghiera”.

ARTE: SCINTILLA DI SPERANZA
In una Udienza nel 2009 Benedetto XVI disse che “un’opera d’arte è frutto della capacità creativa dell’essere umano, che si interroga davanti alla realtà visibile, cerca di scoprirne il senso profondo e di comunicarlo attraverso il linguaggio delle forme, dei colori, dei suoni. L’arte è capace di esprimere e rendere visibile il bisogno dell’uomo di andare oltre ciò che si vede, manifesta la sete e la ricerca dell’infinito. Anzi, è come una porta aperta verso l’infinito, verso una bellezza e una verità che vanno al di là del quotidiano. E un’opera d’arte può aprire gli occhi della mente e del cuore, sospingendoci verso l’alto”. E ancora “Questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che infonde gioia al cuore degli uomini, è quel frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione”. Quello che mi ha colpito dell’articolo del critico Berger è l’aver vissuto un percorso che, inevitabilmente e ragionevolmente, approda alla “questione del diritto ontologico dell’uomo” che l’arte necessariamente “solleva”, che possiamo tradurre e ritrovare nelle parole del Papa “L’arte è capace di esprimere e rendere visibile il bisogno dell’uomo di andare oltre ciò che si vede, manifesta la sete e la ricerca dell’infinito”. Su questo bisogno ontologico dell’uomo è facile ritrovarsi, sul fatto che l’arte debba essere e sia questo è tutto da dimostrare o da verificare. Sempre in quella bellissima Udienza il Papa emerito ha affermato: “Il momento attuale è purtroppo segnato, oltre che da fenomeni negativi a livello sociale ed economico, anche da un affievolirsi della speranza, da una certa sfiducia nelle relazioni umane, per cui crescono i segni di rassegnazione, di aggressività, di disperazione... Che cosa può ridare entusiasmo e fiducia, che cosa può incoraggiare l’animo umano a ritrovare il cammino, ad alzare lo sguardo sull’orizzonte, a sognare una vita degna della sua vocazione se non la bellezza?”. I fondatori della Cracking Art non a caso si sono prefissati anche un impegno sociale per prendere consapevolezza della “inevitabilità del fatto che il nostro mondo stia diventando sempre più artificiale”. Nel messaggio ai lavori della ventunesima seduta pubblica delle pontificie accademie, Papa Francesco sollecita gli artisti a “creare opere d’arte che portino, proprio attraverso il linguaggio della bellezza, un segno, una scintilla di speranza e di fiducia lì dove le persone sembrano arrendersi all’indifferenza e alla bruttezza”. È semplice dunque, alla luce di quanto detto, poter giudicar. Il cuore dell’uomo - mio e tuo - è fatto per la bellezza, la desidera, la reclama nel suo procedere esistenziale e quotidiano. Basta allora porsi di fronte all’opera di questi artisti per cogliere se nelle loro opere si riverbera la bellezza di cui abbiamo parlato; basta vedere se la nostra semplice sensibilità umana sperimenta l’essere sopraffatta da quella “emozione estetica” (tutti ci meravigliamo difronte a un tramonto!), da un senso di stupore, da una inaspettata sorpresa che mi aiuti non solo a prendere coscienza dell’inevitabilità di un futuro artificiale, ma possa offrirmi anche una scintilla di speranza. Prendere coscienza è utile ma non basta, non soddisfa ciò che sta al fondo di quel bisogno innato di bellezza. La mia ragione si rifiuta di cedere “all’inevitabilità” degli eventi scartando volontà e libertà di scelta, pur in un contesto così difficile come il nostro. In definitiva il gruppo si prefigge, attraverso queste performance, di sensibilizzare le persone verso “l’importanza e l’impatto ambientale del riciclo” contribuendo anche ad nuova concezione estetica ed usando di questa per promuovere una cultura più ecologica. Nulla da eccepire. Se questa azione abbia ottenuto o stia ottenendo i risultati prefissati ancora non possiamo dirlo. Mi colpisce, però, il punto a cui approda inevitabilmente e ragionevolmente John Berger, chiamato a esporre la sua critica sul movimento. “Punto” da cui non ci si può sottrarre e conferma la natura intrinseca e ontologica di ogni uomo che nella sostanza, seppur in termini differenti, è stata già espressa dagli interventi di Papa Benedetto XVI (2009) e Papa Francesco (2016). Dunque se queste opere rispondano anche a questo dovere, a questa funzione intrinseca dell’arte il giudizio è lasciato a ciascuno che, vedendo quanto il movimento si stia diffondendo promosso da enti pubblici e privati, con facilità potrà imbattersi in queste colorate invasioni. L’importante è non venire mai meno a se stessi, alla natura di noi stessi che irriducibilmente e instancabilmente cerca… e spera di “ricevere una risposta più certa” a quella promessa di felicità che nell’esperienza di una “emozione estetica”, ovvero di uno stupore che la realtà e più in generale la bellezza delle cose create suscita in noi, si concretizzi permanentemente nella nostra vita, si renda tangibile a tal punto da dargli un nome, da potergli dire “tu”. Se c’è l’intuizione di una promessa deve esserci anche la certezza di una risposta. Questo John Berger lo ha intuito. Diversamente l’esistenza tutta sarebbe un’ingiustizia. Sarebbe davvero da stupidi arrestarsi a l'inevitabilità degli eventi, rassegnandosi e cercando risposte consolatorie autodeterminate. È davvero troppo poco. Che bello invece arrivare a riconoscere l’arte sempre come una forma di preghiera! Non è sentimentalismo. È realismo. Pregare significa rivolgersi a un “tu”, a una presenza a cui poter dire “aiutami...prendimi la mano...perdonami...stammi vicino…stai con me!”, perché io possa affrontare la realtà che mi viene incontro, mi accade, mi chiama in gioco sempre, anche quando non mi piace, non la vorrei così come mi accade. Nella storia questa presenza, con una pretesa così alta, è accaduta e ha assunto una carne e un nome, Gesù. La mia volontà e la mia libertà vogliono credere - e sperare! - che il futuro non sia inevitabile ma, pur dentro una eventuale inevitabilità, voglio che sia affrontabile...voglio poterla e saperla affrontare.

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