Dalla rassegnazione alla speranza

Quando la realtà sembra (ma fino in fondo non riesce) a sopraffare il cuore

29 Giugno 2021

… E poi un giorno come tanti altri, la vita di alcuni bambini e adolescenti sembra spegnersi: il loro sguardo diventa vacuo, perdono interesse nella realtà, non parlano, non bevono, non mangiano più e infine i loro occhi si chiudono. Si addormentano per mesi, per anni. Non sono in coma, non hanno malattie. Sono sani, ma cadono semplicemente e misteriosamente in una condizione prima di abulia e poi di letargo, di catatonia. Questa è la storia di quei ragazzi che si disconnettono dal mondo, affetti dalla Uppgivenhetssyndrom, la “Sindrome da Rassegnazione”.

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La Uppgivenhetssyndrom, la “Sindrome da Rassegnazione”: il documentario La Uppgivenhetssyndrom, la “Sindrome da Rassegnazione”, è una condizione che, a partire dal 2000, sembra colpire esclusivamente bambini e bambine che arrivano in Svezia dalle repubbliche dell'Ex Urss, dai Paesi balcanici o che hanno origine origini yazidi. Sono giovanissimi tra gli otto e i quindici anni, fortemente traumatizzati e richiedenti asilo. Non è un virus né tantomeno di un problema genetico. Si tratta di una estrema reazione al senso di grande precarietà vissuto da quei bambini che per anni vivono una vita sospesa in attesa della conferma dello status di rifugiati o del permesso di soggiorno. Il documentario “Life overtakes me”, in italiano “Sopraffatti dalla vita”, trasmesso da Netflix e diretto da John Haptas e Kristine Samuelson, ha raccontato di questa sconcertante realtà. Quaranta minuti “nudi e crudi”, senza commenti, fatti solo di immagini, che sconvolgono e commuovono, e di racconti che lasciano senza parole. Sei lì, davanti alla televisione, immobile, e inevitabilmente rimani segnato dai volti delle famiglie dei ragazzini “malati”, pieni di dolore, i cui sguardi sono difficili da dimenticare. E poi ci sono loro, i bambini, Dasha, sette anni, Leyla, dieci anni, Karen, dodici anni, che sembrano un po’ come i protagonisti delle fiabe: immersi nel loro stato comatoso, respirano tranquillamente, hanno una pressione nella norma, ma sono stesi nei loro lettini, con il loro sondino naso-gastrico, con i loro occhietti chiusi che ogni tanto si muovono in maniera quasi impercettibile. Si lasciano accarezzare e accudire dai loro familiari, immobili, inermi, in attesa di qualcosa o di qualcuno che li svegli… Questi bambini hanno visto e vissuto cose che nessuno al mondo dovrebbe mai provare. Persecuzioni, stupri, omicidi che hanno inevitabilmente lasciato un segno nelle loro giovani vite. Poi la fuga dal loro paese di origine e l’arrivo in Svezia, la nascita di una nuova vita finalmente bella e piena in un Paese straniero, la scuola, gli amici, la nuova lingua… Ma qualcosa, un’ombra, che diventa pian piano sempre più scura, attanaglia i loro cuori e così, come sopraffatti dalla realtà, incapaci di portare sulle loro piccole spalle il peso fin troppo gravoso della precarietà e della paura di essere rimpatriati, si spengono. Il loro stato dura mesi, anni. E non sempre c’è il lieto fine. Leyla, una bambina yazida, dopo circa un anno, è ancora in attesa di avere una risposta alla richiesta di asilo, e anche la sorella maggiore ha iniziato a poco a poco a ritirarsi dal mondo. “È tutta paura, i nostri corpi sono pieni di paura”, afferma il padre, mentre nella casa silenziosa le due bambine giacciono addormentate sui loro lettini.

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Quel male infido: la rassegnazione “Sopraffatti dalla vita” documenta dunque una condizione che affligge i ragazzi gravemente traumatizzati, che vivono una situazione di grande precarietà personale e familiare. Giovani e giovanissimi, impauriti, addolorati, rassegnati. Di certo, quanto raccontato dal documentario è un fatto estremo e anche geograficamente lontano da noi, ma, se ci fermiamo per un attimo, siamo davvero così convinti che la rassegnazione, la perdita della speranza non ci tocchino e non tocchino i nostri giovani? Per rispondere a questa domanda, basta guardarsi intorno, aprire un quotidiano qualunque e leggere di fatti di cronaca locale e nazionale… La pandemia da Covid ha sicuramente acuito taluni malesseri. Crisi economica, sociale ed esistenziale hanno contribuito ad un aumento tra i ragazzi di stati di ansia rispetto al futuro: ad intensificare il disagio sono stati i lunghi mesi di isolamento che hanno destabilizzato il loro benessere mentale, l'istruzione e le prospettive di lavoro.  Secondo una stima contenuta in una ricerca della Fondazione europea per la vita e il lavoro, quello dei giovani è il gruppo che in percentuale rischia di ammalarsi di meno di Covid, ma anche quello più colpito dalla più grande interruzione dell'istruzione della storia moderna, dall'aumento della disoccupazione e dagli effetti psicologici dell'isolamento. Questo clima di incertezza ha accresciuto e sta accrescendo sentimenti di sconforto, rabbia, dolore, poi, ad un certo punto esplodono in tutta la loro violenza. “Alcuni vivono le regole di questa chiusura con aggressività, impazienza, intolleranza, spesso diventano aggressivi verso i familiari o rivolgono verso sestessi l’aggressività – afferma il dottor Stefano Vicari, primario Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza del Bambino Gesù di Roma –. Qualcuno supera addirittura la soglia dell'autolesionismo non pericoloso e tenta il suicidio. Un altro gruppo si isola, restano chiusi nella propria stanza…”. Come non ricordare, inoltre, i recenti fatti di cronaca che raccontano di giovani che si danno appuntamento tramite i social per maxi risse, aggressioni di gruppo, senza un motivo. Cosa sono dunque questi atteggiamenti estremi, se non l’espressione, più o meno inconscia, della rassegnazione?Equesta rassegnazione, questa chiusura, questa insicurezza cosa sono se non un grido, talvolta silenzioso, altre decisamente devastante, che gli adulti devono imparare ascoltare e accogliere?

La speranza:

Ne ero certa.
Sarei annegata.
Troppo alte le onde
troppo piccola la nave
troppo lontana la costa
troppo spaventata la mente.
C’era un odore di fine
ed era estraniante il sollievo.
Finalmente smettere di lottare
di disperare
di soffrire.
Ma qualcosa dentro
si dimenava in agonia
e non riusciva a morire.
Era la speranza. La speranza è un dolore che non si arrende.
(Maria Letizia Del Zompo Dal libro: “Passi. Versi di un incontro” - Nulla die 2017)

Eppure, nonostante tutto, c’è qualcosa che riesce a vincere sulla tenebre… La luce viene riaccesa pian piano dalla speranza: in Svezia, molti dei bambini affetti dalla Sindrome della Rassegnazione, si risvegliano lentamente quando il permesso di soggiorno arriva, quando la famiglia si sente al sicuro e i genitori iniziano a cambiare inconsapevolmente il tono della voce, il modo in cui li toccano e li accarezzano. L’atmosfera in casa diventa più serena. I bambini percepiscono la nuova realtà e iniziano a reagire: gli occhi si riaprono, lo sguardo si riempie della realtà che li circonda e lentamente la vita riprende il sopravvento. In Italia, a fronte di tanti episodi e di tanti segnali preoccupanti, non sono mancati e non mancano storie segnate dall’amore, dalla riscoperta della fede, che costituisce per molti ragazzi un “sostegno nella prova”, come emerge da una “consultazione” che la Conferenza episcopale francese ha svolto su giovani studenti cattolici,dallo sguardo nuovo sulle cose e dalla speranza. “Ma cos’è la speranza?” – si chiedeva papa Francesco nell’omelia tenuta durante la messa a Santa Marta il 29 ottobre del 2013 –. “Per avvicinarci un po’ possiamo dire per prima cosa che è un rischio. La speranza è una virtù rischiosa, una virtù, come dice san Paolo, di un’ardente aspettativa verso la rivelazione del Figlio di Dio. Non è un’illusione. È quella che avevano gli israeliti» i quali, quando furono liberati dalla schiavitù, dissero: «ci sembrava di sognare. Allora la nostra bocca si riempì di sorriso e la nostra lingua di gioia». […] Avere speranza significa proprio questo: essere in tensione verso questa rivelazione, verso questa gioia che riempirà la nostra bocca di sorriso”. Noi adulti siamo chiamati per primi ad essere testimoni di speranza, la “più piccola delle virtù, ma la più forte”, portatori e custodi di questo sorriso, talvolta faticoso, ma che libera dalle tenebre, che non evita il buio, ma lo accoglie e lo affronta, certi che il cuore di ciascun uomo, dal più grande al più piccolo, ha bisogno di amare e di essere amato. E questo sorriso non si inventa, non è uno stato mentale, una sensazione, ma ha un volto, concreto e umano: il volto del Signore risorto, che non delude mai, che si manifesta in mille modi, nelle carezze dei genitori per i propri figli, nella vita che si riapre lentamente ma tenacemente alla realtà, nella vicinanza a chi vive momenti di difficoltà. “…Se Cristo è la Presenza, è il rapporto e la certezza di ogni istante, nel tempo non può non emergere il frutto – ci insegna Nicolino –. Anche dentro mille fatiche, tradimenti, errori e limiti, non si può non cogliere il dono del frutto di un umano nuovo come passione, come attenzione, come sguardo, come coinvolgimento, come intelligenza, come carità, gratuità, accoglienza e perdono; come attenzione e struggimento per gli altri, come sacrificio, come consapevolezza e giudizio… come speranza, beatitudine e gioia. La speranza e la gioia sono la sfida più reale e concreta alla mentalità del mondo. La vera speranza e la piena gioia sono solo possibili dentro la certezza, l’esperienza di una certezza, l’esperienza di una Presenza certa che vince il male, il peccato, la fragilità… continuamente presenti in noi; dentro l’esperienza di un abbraccio reale e certo, in cui ci si riconosce continuamente perdonati, recuperati, ricostituiti… e che ci fa sentire realmente, sperimentalmente quello che san Paolo afferma nella sua Lettera ai Romani: “Noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il Suo disegno”. Chiediamo per noi e per tutto il mondo il dono della speranza. A Maria, Madre di Gesù e Madre nostra, chiediamo di intercedere per noi perché possiamo sperare come Lei ha sperato.

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