Il miracolo della Vita

IL NOSTRO NO ALL’EUTANASIA E AL DIRITTO DI AUTODETERMINAZIONE: NESSUNA SOFFERENZA PUÒ TOGLIERE DIGNITÀ ALLA VITA UMANA! La pretesa di sopprimere una vita “biologica” nel nome della difesa della dignità della vita “biografica” andrebbe chiamata col proprio nome: è soltanto una pretesa eutanasica.

27 Ottobre 2007

S. Pietro risana gli infermi con la sua ombra (Masaccio)La dignità di un uomo

In questi giorni non si fa altro che parlare del “diritto a morire” dentro la dolorosa storia di uomini, la cui malattia fisica ha impedito la cosiddetta “vita normale”. Nessuno di noi può rimanere inerte o peggio indifferente di fronte alla menzogna di chi vuole addolcire con falsi principi una pratica a tutti gli effetti omicida, che non ha nulla a che fare né con la salute né con la qualità della vita. La Chiesa cattolica da anni si batte con forza per l’affermazione della vita e della dignità umana in ogni momento e in ogni sua circostanza: si pensi ad esempio alla Dichiarazione sull'Eutanasia (1980), pubblicata 20 anni or sono dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, al documento del Pontificio Consiglio Cor Unum Questioni etiche relative ai malati gravi e ai morenti (1981), all'Enciclica Evangelium Vitae (1995) di Giovanni Paolo II (in particolare ai nn. 64-67), alla Carta degli Operatori sanitari, redatta dal Pontificio Consiglio per la Pastorale della salute (1995). “In questi documenti del Magistero non ci si è limitati a definire l'eutanasia come moralmente inaccettabile, «in quanto uccisione deliberata di una persona umana» innocente (cfr EV 65. Il pensiero dell'Enciclica è precisato al n. 57, consentendo così la giusta interpretazione del passo del n. 65 appena citato), o come azione «vergognosa» (cfr Conc. Vat. II, GS 27), ma è stato anche offerto un itinerario di assistenza al malato grave e al morente che fosse, sia sotto il profilo dell'etica medica, sia sotto il profilo spirituale e pastorale, ispirato alla dignità della persona, al rispetto della vita e dei valori della fraternità e della solidarietà, sollecitando persone ed istituzioni a rispondere con testimonianze concrete alle sfide attuali di una dilagante cultura di morte” (da Considerazioni etiche sull'eutanasia della Pontificia Accademia per la Vita). Inoltre nel mese di settembre di quest’anno il Vaticano ha ribadito il suo “no” alla dolce morte per i malati terminali. Anche se in “stato vegetativo permanente”, il paziente “è una persona, con la sua dignità umana fondamentale”. Lo ha affermato la Congregazione della Dottrina della Fede in risposta ad un quesito della Conferenza Episcopale degli Stati Uniti, sottolineando che dunque anche al paziente che si trovi in questa situazione “sono dovute le cure ordinarie e proporzionate, che comprendono, in linea di principio, la somministrazione di acqua e cibo, anche per vie artificiali”. Tale somministrazione, spiega il dicastero vaticano, “è quindi obbligatoria, nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l'idratazione e il nutrimento del paziente”. Afferma il prof. Francesco D’Agostino, Docente di Filosofia del Diritto e membro del Comitato Nazionale per la Bioetica e della Pontificia Accademia per la Vita: “Le risposte che la Congregazione per la Dottrina della Fede ha dato ai quesiti ad essa rivolti dalla Conferenza Episcopale statunitense circa l'alimentazione e l'idratazione artificiali di pazienti in stato vegetativo non si segnalano per la loro novità: la stessa Nota che li accompagna sottolinea infatti come esse si collochino nella linea di diversi precedenti pronunciamenti della Santa Sede in materia e in modo particolare nella linea di un importante discorso che nel 2004 Giovanni Paolo II pronunciò in occasione di un Convegno internazionale. Esse sono però particolarmente apprezzabili e benvenute per l'estrema chiarezza e per la fermezza con cui argomentano che è sempre moralmente obbligatorio nutrire e dissetare questi pazienti e che non è mai lecito sospendere alimentazione e idratazione, nemmeno nei casi nei quali vengano somministrate per vie artificiali a malati il cui stato vegetativo sia ritenuto con certezza morale, e da medici competenti, irreversibile. In altre parole, alimentare e idratare pazienti in coma sono mezzi naturali di conservazione della vita e non atti terapeutici; non vanno ritenuti, in linea di principio, una forma di «accanimento terapeutico», passibile di legittima sospensione… Essa si è limitata a ribadire un principio bioetico consolidato, quello per il quale ogni forma di trattamento, di cura e di assistenza a carico di malati terminali o comunque colpiti da gravissime patologie va sempre praticata, nei limiti in cui sia un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita del malato…”. Continua dicendo: “…mai, in nessun caso, una malattia - nemmeno la più estrema e tragica - può togliere dignità a un uomo, perché, per quanto questo possa apparire paradossale, è proprio per la nostra comune fragilità (e non per la nostra intelligenza o per la nostra forza o per la nostra bellezza) che noi uomini siamo persone e possediamo un nostro proprio e specifico valore, che nessuna macchina - per quanto perfetta e capace di non guastarsi mai - potrà mai possedere…”. È così semplice, evidente. Eppure tanto osteggiato e relativizzato. Come se fosse opinabile, arbitrario. Pare che ognuno possa dire la sua… accade ancor peggio che ogni Commissione, Ente, Giudice o Corte…possa esprimere un parere, soggettivo, …e così purtroppo decidere della vita e della morte. È assurdo.

Fiori insopportabili di vita

Fiori insopportabili di vita. Nel loro silenzio, nella loro infermità. Ragazze come cespi di fiori e di spine che ci feriscono, ci affascinano. Ci inciampano il cammino. Finché arriva qualcuno, un giudice, una corte – qualcosa sempre senza faccia, senza mandato popolare, ma eletto da colleghi, da caste come si dice oggi – a dire: staccate la spina, smettete di darle da bere. Invece che dire: aiutiamo se la famiglia non ce la fa. Invece che dire: è un mistero la vita così, ma vita è, sosteniamola finché si deve e riesce, si arriva ad equiparare di fatto l’alimentazione artificiale a un accanimento terapeutico. E si dice: sospendete l’acqua, il cibo, muoia di fame lei che nemmeno un tremendo incidente aveva spento del tutto” (di Davide Rondoni – Avvenire del 19 ottobre 2007)) Proprio in questi giorni la Corte di Cassazione ha accolto l'ultimo degli otto ricorsi legali del padre e della madre di Eluana Englaro, una ragazza italiana di Lecco in stato vegetativo dal 1992, in seguito ad un incidente stradale, e ha ammesso, per la prima volta in Italia, la possibilità di lasciar morire i pazienti nelle stesse condizioni di Eluana. Dimessa dalla rianimazione nell'aprile 1992, Eluana è stata portata in un altro reparto dell'ospedale di Lecco ove da anni è tenuta in vita mediante un sondino nasogastrico che provvede alla sua nutrizione e idratazione. Nel 1997 il padre nel procedimento di interdizione di Eluana ha chiesto ed ottenuto di essere nominato tutore della figlia, ma il Tribunale di Milano non gli aveva mai concesso l’autorizzazione ad interrompere la terapia che la tiene in vita. Ed anche la sentenza della Corte d'Appello di Milano del dicembre 1999, aveva rigettato la richiesta di rifiuto delle cure. La prima sezione della Cassazione, invece, rimandando il fascicolo del processo alla Corte d´Appello di Milano ha disposto in questi giorni che “il giudice può autorizzare la disattivazione” del sondino, su istanza del tutore, a patto che sia provata come irreversibile la condizione di stato vegetativo e che sia accertato che il convincimento etico della giovane avrebbe portato a tale decisione. Per l’Osservatore Romano la sentenza della Cassazione è frutto di un inaccettabile “relativismo dei valori” e orienta “fatalmente il legislatore verso l'eutanasia” (leggi l’articolo). La perplessità maggiore è data dal fatto che sembra che la Corte stabilisca che qualora una persona non fosse più in grado di avere rapporti coscienti e relazioni, possa essere in qualche modo abbandonato dal punto di vista assistenziale. Come si può rinunciare a questa forma di assistenza o come si può teorizzare che la società possa smettere di assistere persone che non sono più in grado di intendere e di volere? Inoltre non si può parlare di diritto a morire, perché il diritto riguarda solo la sfera di beni che siano utilizzabili, e la morte non è un bene, ma un fatto. Non si può accettare l’idea che uno chieda di essere lasciato morire di fame e di sete. Qui si tratta di rinunciare ad avere quell’alimentazione e quell’idratazione che sono il conforto minimo per una persona. “Si facciano avanti i medici, coloro che hanno responsabilità diretta. Ci dicano loro, che hanno le mani e la coscienza coinvolta con la vita di Eluana se si tratta di accanimento o no. Ma se è cura, la si faccia” come ha scritto il prof. Davide Rondoni. Riportiamo alcuni tratti di un’intervista fatta al prof. Alberto Gambino, Ordinario di Diritto civile all’Università di Napoli “Parthenope” e docente di Diritto privato all’Università Europea di Roma, in merito alla sentenza della Cassazione sulla vicenda di Eluana, che afferma con estrema chiarezza come la sentenza sia erronea in punto di fatto e in punto di diritto, e priva, inoltre, di logica giuridica.

Se l’amore perde, la parola passa ai “giudici”

Eppure in questi ultimi mesi tante sono state le storie dolorose che sono entrate nelle nostre case, il dramma di persone la cui storia è stata narrata sui quotidiani nazionali ed internazionali. È accaduto pochi mesi fa che in Svizzera la Commissione di Etica Clinica dell'Eoc (Ente ospedaliero cantonale) si era espressa contro dei trattamenti, perché ritenuti futili, ad un giovane italiano domiciliato in Svizzera, Antonio Trotta, in coma vigile per due anni dopo aver subito un incidente stradale in territorio elvetico. La commissione etica aveva appunto suggerito di evitare l'accanimento terapeutico non solo in base a criteri medici, ma anche con un senso di “pietas” parlando di “trattamenti ritenuti futili in medicina intensiva o addirittura atteggiamenti di accanimento terapeutico, senza possibilità reale di guarigione o raggiungimento di una qualità di vita accettabile” e che ha fatto dichiarare espressamente ai medici di Lugano: “Ci asteniamo pertanto dall'applicare misure di rianimazione”. Per volontà dei genitori quest’estate Antonio era stato trasferito in Italia: le sue condizioni continuavano ad essere gravi, ma non tanto da perdere le speranze, secondo quello che scriveva l'equipe della professoressa-neurologa milanese Cecilia Morosini. La relazione seguita alla visita del paziente avvenuta nelle sedi della sua Fondazione, raccomandava al contrario ai familiari di “portare a casa il paziente che è indubbiamente sveglio ed estremamente recettivo nei confronti di stimoli affettivi con importante valenza emotiva”. La drammatica storia di Antonio e di tutti i suoi famigliari è stata contornata da una serie di vicende legate al ritorno o meno di Antonio in Svizzera… pazzesche controversie che non facevano altro che tirare il dolore del corpo e dell’anima di un uomo e dei suoi cari a causa di evidenti altri interessi… Antonio si è spento il 1° ottobre scorso, nella clinica di Brebbia dov’era ricoverato, circondato dall’affetto e dalla preghiera dei suoi cari che non si danno pace per come è stato curato il loro figlio in Svizzera. Rimane, oltre al dolore, lo sdegno per l’ignobile rimpallo a cui la vita di un uomo è stata sottoposta, il contenzioso tra la legislature differenti di due Paesi diversi, l’umana indignazione per il fatto che la parola e la volontà di due genitori, disposti a ribaltare e ad offrire tutta la loro vita per amore del proprio figlio malato, è stata assoggettata e messa duramente alla prova dalla volontà di non si sa quale precisa facoltà e autorità. Quale autorità maggiore di quella che viene dall’amore gratuito all’altro? E se accadesse a nostro figlio? (la storia di Antonio) E poi solo qualche settimana prima la storia di Giovanni Nuvoli che è molto vicina e ci riporta alla mente la sofferenza di Piergiorgio Welby, perché come Piergiorgio è entrato all’improvviso nelle nostre case, magari attraverso il telegiornale, e ci ha schiaffato in faccia l’urgenza di risposta al dolore, al senso della sofferenza, ma ancor prima al senso della vita. Ci hanno rimesso di fronte parole e sentimenti veramente pieni di dolore, disperati, di chi ha trovato nella morte l’unico senso alla propria sofferenza. Ma veramente l’unica soluzione può essere questa? Scientificamente sembrerebbe così… umanamente è assurdo! E ancor prima la vita e la morte di Terry Schiavo. Chi, in tutta questa vicenda così dolorosa e complessa, fatta di sentenze, leggi, opinioni, affetti, ripicche e lacrime, non ricorda il viso di Terry che, dentro questa tremenda condizione, continuava a sorridere e a testimoniare così che la vita è bella sempre, è dono sempre! Ritroviamo nelle parole di Benedetto XVI nel suo Discorso ai Membri della Commissione Teologica Internazionale lo scorso 05 ottobre un monito sulle disastrose conseguenze del relativismo etico sulla vita e la dignità dell’uomo. “(…) A motivo dell’influsso di fattori di ordine culturale e ideologico, la società civile e secolare oggi si trova in una situazione di smarrimento e di confusione: si è perduta l’evidenza originaria dei fondamenti dell’essere umano e del suo agire etico e la dottrina della legge morale naturale si scontra con altre concezioni che ne sono la diretta negazione. Tutto ciò ha enormi e gravi conseguenze nell’ordine civile e sociale. (…) Il problema che si pone non è quindi la ricerca del bene, ma quella del potere, o piuttosto dell’equilibrio dei poteri. Alla radice di questa tendenza vi è il relativismo etico, in cui alcuni vedono addirittura una delle condizioni principali della democrazia, perché il relativismo garantirebbe la tolleranza e il rispetto reciproco delle persone. (…) La vera razionalità non è garantita dal consenso di un gran numero, ma solo dalla trasparenza della ragione umana alla Ragione creatrice e dall’ascolto comune di questa Fonte della nostra razionalità. Quando sono in gioco le esigenze fondamentali della dignità della persona umana, della sua vita, dell’istituzione familiare, dell’equità dell’ordinamento sociale, cioè i diritti fondamentali dell’uomo, nessuna legge fatta dagli uomini può sovvertire la norma scritta dal Creatore nel cuore dell’uomo, senza che la società stessa venga drammaticamente colpita in ciò che costituisce la sua base irrinunciabile. La legge naturale diventa così la vera garanzia offerta ad ognuno per vivere libero e rispettato nella sua dignità, e difeso da ogni manipolazione ideologica e da ogni arbitrio e sopruso del più forte. Nessuno può sottrarsi a questo richiamo”. (leggi tutto il Discorso)

Il dibattito: “eutanasia” e “testamento biologico”

Il dibattito politico e sociale di questo ultimo periodo sta concentrandosi su due tendenze: da una parte “l’eutanasia” - cioè letteralmente buona morte - è la pratica che consiste nel procurare la morte nel modo più indolore, rapido e incruento possibile a un essere umano affetto da una malattia inguaribile ed allo scopo di porre fine alla sua sofferenza; dall’altra il “testamento biologico” che è l'espressione della volontà da parte di una persona (testatore), fornita in condizioni di lucidità mentale, in merito alle terapie che intende o non intende accettare nell'eventualità in cui dovesse trovarsi nella condizione di incapacità di esprimere il proprio diritto di acconsentire o non acconsentire alle cure proposte (consenso informato) per malattie o lesioni traumatiche cerebrali irreversibili o invalidanti, malattie che costringano a trattamenti permanenti con macchine o sistemi artificiali che impediscano una normale vita di relazione. Il dibattito su questi due “temi”così come posto sinora, solo attraverso media, talk-show, giornali ecc., non aiuta nessuno a capire la verità di queste due “pratiche”. Vi è molta confusione in giro e il dibattito parlamentare sembra ugualmente essere confuso e fortunatamente inconcludente! Nel dialogare si parte sempre da un concetto di dignità umana legato solo alla cosiddetta qualità della vita: quando essa si abbassa o viene meno, ecco che la vita non è più degna di tale nome e può essere terminata a partire dal consenso del soggetto stesso. Ma chi è che ha introdotto questo “livello di vita”, questo tetto sotto cui non si può vivere dignitosamente? Di certo non l’interpretazione della norma costituzionale! E chi è che decide questa “qualità della vita”? Chi ha deciso aprioristicamente che una vita magari di sofferenze in un letto di ospedale attaccato ad un tubo dell’ossigeno non è vita? È ovvio che questa è una provocazione e non una bieca e grottesca esaltazione e mitizzazione del dolore e della malattia; tutt’altro! Si vuole solo far emergere che l’uomo è sempre uomo anche in quel momento lì, anche quando “dipende” da una macchina o dagli altri, quando soffre, quando non rappresenta più il nostro ideale di bellezza e di fisicità. Perché la vita dell’uomo ha valore in sé in quanto tale, in quanto esistente, in quanto essere umano.

La Costituzione italiana e il diritto alla salute

La nostra Costituzione individua fondamentalmente nell’art. 32 la tutela della persona nel particolare ed importante ambito relativo alla sua salute: “1. La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti. 2. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Questa norma è sicuramente oggetto di recenti e severe dispute tra chi da un lato fondando la propria tesi particolarmente sul comma 1 trova il “baluardo” per interpretarla a favore di una radicale pratica di “autodeterminazione”, e chi, dall’altro, sostiene che la vita umana, essendo intoccabile dall’inizio sino al suo compimento, non può essere “terminata” per un soggettivo ideale di “dignità” da nessuno, neanche da se stessi. Ha scritto Francesco D’Agostino sul quotidiano Avvenire: “… Si è data una interpretazione esasperata di un fondamentale principio costituzionale (art. 32²), quello per il quale «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge», come se si trattasse di un’apertura del nostro dettato costituzionale all’eutanasia. Non è così. Non c’è dubbio che, in base a questo principio, un malato possa rifiutare qualsiasi trattamento, anche salvavita, o possa comunque chiederne la sospensione. Tale richiesta non va però di per sé intesa come una richiesta di eutanasia e l’accedere a tale richiesta non ha di per sé la valenza di un atto eutanasico. Bisogna quindi ricordare che il valore del principio dell’art. 32² della Costituzione sta non nel favorire l’abbandono terapeutico, ma nel porre un limite difficilmente superabile alla tentazione, ricorrente anche se spesso in fondo inoffensiva, del paternalismo terapeutico, alla quale facilmente tendono a cedere tutti i sistemi in cui la sanità acquista una valenza pubblica ed è inevitabilmente «amministrata» in modo burocratico…”. Quando la norma costituzionale sancisce il divieto dell’obbligo ad un determinato trattamento sanitario è chiaro che essa debba essere interpretata e correlata con il seguito che ordina che “la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”, riconoscendo quindi alla base e prima di tutto una tutela assoluta alla vita e alla persona umana in tutti i momenti e circostanze, soprattutto nella difficoltà come poi tutela il primo comma della norma sancendo il Diritto alla salute come “diritto fondamentale dell’individuo”, come diritto della collettività, assolutamente non negoziabile né dal parlamento e neppure dal soggetto interessato. Su ciò non si può discutere: sono questi i principi fondanti tutte le Costituzioni occidentali emanate nel dopoguerra, compresa la nostra e soprattutto la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. No, la vita non è un diritto negoziabile anche se oggi si vuol far passare l’eutanasia, l’autodeterminazione, il testamento biologico come diritti necessari perché espressione massima della libertà umana. È buffo e grottesco pensare che in Italia ci siano norme che tutelano certi diritti, ad esempio quelli dei lavoratori, definendoli innegoziabili e quindi irrinunciabili pena la lotta di classe; mentre per quanto riguarda il diritto alla vita… ognuno potrebbe fare e pensare ciò che vuole! Non è così, e numerosa giurisprudenza, che ha il compito di applicare correttamente le norme, sinora ha ribadito che il diritto alla vita inevitabilmente prevale su quello di autodeterminazione. Come afferma D’Agostino: “…Una legge sull’eutanasia è infatti la peggiore soluzione che si possa ipotizzare per dare risposta a un problema reale. Non c’è dubbio che esistano situazioni di fine vita tragiche, se non atroci, e non c’è nemmeno il dubbio che esse siano situazioni non solo rare, ma eccezionali, ciascuna cioè connotata da una sua irriducibile particolarità. Ma la legge non è fatta per gestire situazioni estreme ed eccezionali; è fatta per gestire la quotidianità dell’esperienza… E situazioni estreme, come quelle di fine vita, non tollerano di essere burocratizzate. Quando la legge pretende di farlo, la morte diventa il momento conclusivo di una procedura amministrativa, fredda e anonima come inevitabilmente sono tutte le procedure”. Ed ancora: “…Si è indotta nella gente l’erronea convinzione che uno dei doveri fondamentali dei medici sia quello di aiutare i loro pazienti a morire, evitando accuratamente di ricordare come il giuramento ippocratico (prima ancora che una visione religiosa della vita) impegna il medico a lottare sempre e soltanto per la vita e non a operare per la morte. Si è esaltato il principio di autodeterminazione del paziente, come se legittimasse qualunque pretesa del malato nei confronti del medico, fino all’estrema pretesa eutanasica, quando questo principio, fondamentale per la corretta attribuzione della piena responsabilità morale, acquista in bioetica una valenza ben più ristretta, riducendosi in buona sostanza al dovere di acquisire, per legittimare qualsiasi atto medico, il consenso pienamente informato, da parte dei pazienti se competenti, o se incompetenti dei loro rappresentanti legali… È falso che la vita del comatoso sia solo biologica; la sua terribile malattia è parte costitutiva della sua biografia; parlargli, accarezzarlo, accudirlo, nutrirlo non sono azioni insensate e prive di un “ritorno”: ciò che si può apprendere dal prendersi cura di questi pazienti e grazie quindi a essi possiede a volte (anzi, quasi sempre) un valore incalcolabile. Ed è non solo falso, ma pericolosissimo imputare a questi malati la perdita della dignità: mai, in nessun caso, una malattia - nemmeno la più estrema e tragica - può togliere dignità a un uomo…”.

S’accende la speranza…

Il corpo è il memoriale della vocazione di ogni uomo alla libertà e alla responsabilità. Non scelto, è dono oppure onere, fardello, ma soprattutto è l’obbedienza originaria dell’uomo inscritta nella sua nascita. Per questo siamo chiamati a rispettare sempre la persona offesa dall’obnubilamento dell’Alzheimer, assimilata al letto o alla carrozzella su cui giace, ferita nelle facoltà fisiche o intellettuali, senza mai identificarla con la sua infermità. Resta «imago Dei». «Quando saranno alleviate sempre più le schiavitù inutili, saranno scongiurate le sventure non necessarie, resterà sempre, per tenere in esercizio le virtù eroiche dell’uomo, la lunga serie dei mali veri e propri: la morte, la vecchiaia, le malattie inguaribili, l’amore non corrisposto, l’amicizia respinta o tradita, la mediocrità d’una vita meno vasta dei nostri progetti e più opaca dei nostri sogni»”. (Enzo Bianchi - Avvenire del 23 settembre 2007). Razionalmente si può comprendere che la vita è intoccabile e sempre dignitosa dentro il riconoscimento “naturale” del suo essere “uomo”, persona. E solo nell’esperienza cristiana è possibile imparare il vero rispetto per sé e per l’altro; solo in Cristo si comprende fino in fondo che la carne, il corpo di ciascun uomo è il luogo del Divino, e quindi ha già in sé quella dignità e quel segno indelebile che Dio Creatore imprime sin dalla concepimento nel grembo materno. Allora si può parlare di vita dall’embrione fino al malato terminale, senza fare troppa demagogia o senza scomodare filosofie o ideologie varie. Solo dentro l’autentica origine e considerazione dell’uomo ci si può fare accanto anche al dolore più grande, come quello di genitori di fronte a figli paralizzati da anni o come quello di mogli nel dramma di un marito in stato vegetativo; quel dolore, quella fatica non sono senza una strada, senza speranza; sono affrontabili grazie alla crocifissione, morte e resurrezione di nostro Signore Gesù Cristo, che per affrontare e sostenere ogni passo dell’uomo, si è fatto anche Lui uomo fino al dolore e alla morte in croce. E questa Speranza, poi, non si è fermata in quel momento di tempo di duemilasette anni fa, ma si è diffusa nel mondo grazie a uomini, volti e testimoni di quell’Amore che tutto sana, tutto guarisce, tutto sopporta. Questa Amicizia della Santa Chiesa, corpo di Cristo, sostiene e si fa accanto ogni giorno a situazioni di sofferenza, morale e fisica, nella forma di grandi opere, pubbliche e private, che quindi evidenziano concretamente quella Speranza in ogni gesto, carezza, parola e cura medica di cui ci sia bisogno. Sostiene la vita e le indica e l’accompagna al Destino. Non si tratta dunque di essere più bravi, e di non avere paura. La forza non è nel credere di potercela fare con le proprie energie, o nel credere di saper attraversare una condizione così estrema di dolore e sofferenza; la forza è nell’essere certi di Gesù, della sua promessa, della sua vittoria, della sua presenza redentiva oggi, come duemilasette anni fa, attraverso la sua Compagnia da seguire nella strada verso il pieno compimento della vita di ogni uomo: la vita eterna. “(…) Il dolore e la sofferenza come c’entrano con l’affermazione del centuplo? Nella promessa di Gesù [il centuplo quaggiù e in eredità la vita eterna] non c’è la semplificazione di nessun fattore della vicenda umana, e quindi della morsa di dolore, di sofferenza, di tragedia che la caratterizzano. Cristo viene a salvarci, viene a salvarci patendo e morendo, subendo l’atroce dolore, subendo l’ingiusta morte: la morte più lenta e più infame. La subisce per me e la vince per me, risorgendo per me. È risorto come aveva promesso, per me. È la fine dell’incidenza tragica della veduta corta e nichilista su di me e sul mondo come ultimo giudizio; è il prorompere della Vita come ultima parola, della sua ultima parola come Misericordia su ogni uomo; è l’inizio della vita vera già nell’adesso. Il centuplo non è la promessa della semplificazione di questi drammatici morsi, ma è l’affermazione del senso e della forza di accettazione, di attraversamento, di affronto di questi. Si afferma il centuplo non nella loro semplificazione, ma proprio nel modo di accettarli, di attraversarli, di viverli alla presenza di Cristo morto e risorto; come partecipazione, immedesimazione al suo redentivo sacrificio; al gesto che libera l’uomo dall’incidenza mortale e definitiva del peccato, che lo apre all’esperienza certa della sua resurrezione e vittoria. E in cui s’accende la speranza dentro ogni istante, che sorregge la vita come tensione al suo definitivo destino. La sua promessa è la sua vittoria, già come esperienza adesso, su tutto ciò che ci sovrasta e ci annichilisce sempre. È la sua vittoria su tutto quello che ci vince, è la sua presenza redentiva e misericordiosa che ci strappa dall’incidenza paralizzante del nostro peccato, della nostra strutturale fragilità; e che ci rialza sempre, ci rigenera sempre, ci fa ricominciare sempre a camminare tesi al Destino – il centuplo; che ci dispiega un’onnipresente, inalterabile, inarrestabile ultima positività come esperienza dentro alla totalità del reale - il centuplo. Movente sicuro di uno sguardo commosso su tutto e di una inevitabile compagnia di amore ad ogni uomo - il centuplo; che apre, sostiene e sorregge la vita alla vera speranza, nella certezza della vittoria di Cristo già nell’adesso - il centuplo – e nella tensione al suo destino, in cui questa sarà definitivamente vita eterna – e in eredità la vita eterna(…) (Nicolino Pompei – Convegno 2004).
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