L’Italia dice no all’eugenetica, e l’Europa?

La sentenza di Strasburgo oltre ad essere moralmente ed eticamente discutibile, presenta dei vizi procedurali e di merito, ad ulteriore dimostrazione che essa è la conseguenza dell’affermazione di un pensiero e non di una norma.

07 Dicembre 2012
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo apre all’eugenetica anche in Italia ed i giudici di Cagliari la seguono a ruota! Questa è la terribile conseguenza a cui sembrerebbe voler giungere una recente sentenza della Corte di Strasburgo che, accogliendo il ricorso di due coniugi italiani ha affermato che il nostro Paese, con la Legge 40/2004 sulla procreazione medicalmente assistita, avrebbe violato la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, impedendo a una coppia portatrice di una malattia genetica, la fibrosi cistica, di ricorrere alla diagnosi preimpianto, cioè alla selezione degli embrioni creati in vitro, con l’eliminazione degli embrioni malati e l’impianto di quelli non portatori dell’anomalia genetica. In particolare la legge italiana avrebbe violato il diritto alla vita privata e familiare dei coniugi e quello a non essere discriminata rispetto ad altre coppie, in base agli articoli 8 e 14 della Convenzione; inoltre, sempre secondo i giudici della Corte di Strasburgo “il sistema legislativo italiano in materia di diagnosi preimpianto degli embrioni è incoerente” in quanto allo stesso tempo un’altra legge dello Stato (la Legge 194/1978) permette alla coppia di accedere ad un aborto terapeutico se il feto è malato di fibrosi cistica. Tale violazione ha portato la Corte a condannare l’Italia anche ad un risarcimento a favore dei ricorrenti di 15.000 euro per danni morali e di 2.500 euro per le spese legali. Senza dubbio questo ricorso trae origine dal dramma di una famiglia che ha vissuto e sopportato una malattia grave. Ed infatti la coppia nel 2006 aveva avuto una bambina malata di fibrosi cistica e in quell’occasione avevano scoperto di essere entrambi portatori sani della malattia. Quindi volendo avere un altro figlio, ma con la “certezza che sia sano”, i coniugi hanno presentato nel 2011 ricorso alla Corte Europea, senza interpellare nessun tribunale nazionale, sapendo che la legge italiana impedisce non solo la diagnosi preimpianto, ma anche l’accesso alla fecondazione assistita ad una coppia fertile. “La sentenza – ha specificato immediatamente il ministro della Salute, Renato Balduzzi – presenta dei profili processuali particolarmente delicati che già da soli forse giustificherebbero un ricorso anche per future occasioni. Una pronuncia che abbia delle ulteriori certezze serve a capire come si vede il bilanciamento tra i diritti dell’embrione, la tutela della madre e gli altri interessi coinvolti. Alcuni passaggi possono dare luogo a interpretazioni preoccupanti”. In altre occasioni, nel corso degli anni, alcuni tribunali italiani hanno cercato di attaccare la legge - in qualche caso riuscendoci - su molti punti, come il numero massimo di embrioni creabili per ogni ciclo di procreazione e il divieto di congelamento degli embrioni. A una di queste sentenza fa riferimento la Corte di Strasburgo, in particolare a quella del Tribunale di Salerno, nella persona del giudice Antonio Scarpa, che il 13 gennaio 2010 autorizzò per la prima volta in Italia, inneggiando al diritto a procreare e alla salute dei soggetti coinvolti, una coppia fertile portatrice sana di atrofia muscolare spinale di tipo 1 ad accedere alla diagnosi genetica preimpianto e alle tecniche di procreazione assistita, contrastando la legge 40 del 2004 che lo consente, come detto, solo per casi di sterilità e di infertilità. Dalla discutibile pronuncia della Corte di Strasburgo hanno preso le mosse i giudici di Cagliari, i quali con un’ordinanza del 15 novembre scorso hanno riconosciuto il diritto ad una coppia, lei malata di talassemia e lui portatore sano, di poter fare la diagnosi preimpianto presso l’Ospedale Microcitemico della città. La coppia si era vista rifiutare il test prenatale, e quindi aveva deciso di fare ricorso, partendo dalla premessa secondo cui il Tribunale amministrativo nel 2008 aveva eliminato, ma non per le finalità eugenetiche, il divieto alla diagnosi preimpianto contenuto originariamente nella legge, e ciò era stato recepito dalle linee guida alla legge emanate nello stesso 2008 dall’allora ministro della Salute Livia Turco. Secondo questa pronuncia cagliaritana i centri pubblici di procreazione assistita, nella specie il laboratorio di citogenetica dell’ospedale Microcitemico, saranno obbligati ad effettuare il test di diagnosi preimpianto sugli embrioni se la coppia, affetta da malattie genetiche, lo richiede a seguito della fecondazione in vitro, e se non fossero attrezzati per poterlo fare devono ricorrere ad altre strutture sanitarie assicurando comunque il servizio. Di certo questa sentenza è un precedente pesante, perché obbligare una struttura sanitaria ad eseguire un certo specifico esame e addirittura a dotarsi di strumentazioni e competenze per eseguire quell’esame, vuol dire che a decidere i requisiti minimi per i centri di fecondazione in vitro nonché le modalità con cui i medici fanno le diagnosi ai loro pazienti, non saranno più i medici, le regioni o le Asl, ma i tribunali. Il Governo italiano ha depositatoallora lo scorso 28 novembre presso la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo, quale Giudice di seconda istanza, la domanda per il riesame della sentenza della Corte di Strasburgo. Una nota di Palazzo Chigi riferisce che “la decisione italiana di presentare la domanda di rinvio alla Grande Chambre della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo si fonda sulla necessità di salvaguardare l’integrità e la validità del sistema giudiziario nazionale, e non riguarda il merito delle scelte normative adottate dal Parlamento né eventuali nuovi interventi legislativi”. Aggiunge inoltre che il ricorso si è reso necessario “in quanto l’originaria istanza è stata avanzata direttamente alla Corte europea per i diritti dell’uomo senza avere prima esperito - come richiede la Convenzione - tutte le vie di ricorso interne e senza tenere nella necessaria considerazione il margine di apprezzamento che ogni Stato conserva nell’adottare la propria legislazione, soprattutto rispetto a criteri di coerenza interni allo stesso ordinamento”. La Corte avrebbe quindi deciso “di non rispettare la regola del previo esaurimento dei ricorsi interni, ritenendo che il sistema giudiziario italiano non offrisse sufficienti garanzie”, generando così un evidente e grave errore di fondo nella sentenza. La sentenza di Strasburgo oltre ad essere moralmente ed eticamente discutibile, presenta dei vizi procedurali e di merito, ad ulteriore dimostrazione che essa è la conseguenza dell’affermazione di un pensiero e non di una norma; è pertanto assolutamente necessario analizzare previamente  questi aspetti giuridici per entrare nel cuore della questione. La funzione della Corte Europea dei Diritti dell'uomo Innanzitutto è necessario chiarire che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo è stata istituita nel 1959 dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950, per assicurarne il rispetto e vi aderiscono tutti i 47 membri del Consiglio d’Europa, che si sono impegnati a dare esecuzione alle decisioni della Corte europea stessa, sotto il controllo del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa. Questa Corte decide sia su ricorsi individuali che su ricorsi da parte degli Stati contraenti in cui si lamenti la violazione di una delle disposizioni della Convenzione o dei suoi Protocolli Addizionali. Essa però svolge una funzione sussidiaria rispetto agli organi giudiziari nazionali, in quanto le domande sono ammissibili solo una volta esaurite le vie di ricorso interne, secondo quanto prevede la stessa Convenzione nonché le norme di Diritto internazionale generalmente riconosciute. Ecco subito la prima grave carenza e stortura di questa sentenza! Come ben rileva Giacomo Rocchi, magistrato della Corte di Cassazione, in un suo articolo:“C’è un errore grave di tipo procedurale. Per ricorrere alla Corte Europea dei diritti umani il cittadino deve aver esaurito i ricorsi ai tribunali statali. In questo caso non ce n’è stato nemmeno uno. La Corte accetta il ricorso giustificandosi così: date le motivazioni del governo contrarie alla coppia, è evidente che i ricorsi sarebbero stati persi. Questo è un errore grossolano perché il governo non è il legislatore. Non solo, i due ricorrenti portano, in allegato al ricorso, come motivazione a loro favore, la sentenza di un giudice di Salerno che permette a una coppia malata di accedere alla fecondazione. Come a dire che qualcuno in Italia ha già avuto il via libera”. Infatti, come anche evidenziato dal magistrato italiano, non è possibile adire la Corte europea senza aver provato previamente a ricorrere al tribunale italiano per vie ordinarie… e di certo, fa molto più clamore una sentenza della Corte Europea che quella di un tribunale italiano! Quindi si tratta di un ricorso inammissibile da un punto di vista procedurale, difetto che non potrà non essere preso in considerazione nel secondo grado di giudizio. Il dilagante potere della Magistratura ed il pericolo della eugenetica Risulta ormai troppo diffusa la prassi di confondere il potere legislativo con quello giudiziario; questa sentenza, infatti, come affermato da Eugenia Roccella, sottosegretario alla Salute, redattrice delle linee guida delle legge 40, non ancora emanate, “conferma la tendenza della magistratura a invadere campi che non sono suoi: la magistratura non ha compiti creativi, deve applicare le leggi. Non può contraddirle palesemente come fatto dal giudice di Salerno. Eppure abbiamo un giudice che decide che una legge votata dal Parlamento è carta straccia. Se si vuole introdurre l’eugenetica lo si dica chiaramente e si voti una legge in Parlamento, e non in tribunale, e vedremo se gli italiani daranno il loro consenso”. In questo caso è la Corte di Strasburgo ad aver invaso la legislazione italiana: infatti la Corte, lamentando una presunta violazione della Convenzione europea, ha bocciato di fatto gli articoli 4 e 13 della legge 40  sulla procreazione medica assistita:  l’articolo 4 infatti  sostiene che il ricorso alla procreazione medicalmente assistita  è consentita solo alle coppie sterili ("Il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è consentito solo quando sia accertata l'impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione ed è comunque circoscritto ai casi di sterilità o di infertilità inspiegate documentate da atto medico nonché ai casi di sterilità o di infertilità da causa accertata e certificata da atto medico"); l’articolo 13 vieta invece "qualsiasi sperimentazione su embrione umano", e nondimeno  ogni forma di selezione a scopo eugenetico degli embrioni. Dunque è un fatto  molto grave che un giudice europeo, nella sua alta funzione d’imparzialità superiore a quella di un magistrato nazionale, violi questo principio basilare di una legge di uno Stato membro, ignorando i motivi che hanno spinto il legislatore ad emanare la norma stessa: un fatto che dimostra la debolezza giuridica della sentenza della Corte di Strasburgo, che viene ancora prima della discussione sul diritto della coppia in questione alla diagnosi preimpianto. Ed ancora. La legge italiana vieta la diagnosi preimpianto, proprio perché il fine perseguito è quello di "favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dall’infertilità umana", quando non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per  aumentare le possibilità di avere un figlio; e non è invece quello di permettere ai genitori di sceglierne uno sicuramente sano! D’altra parte, la sentenza europea non fornisce alcuna motivazione sul punto decisivo della vicenda, ossia sulla liceità per l’uomo di procedere a forme selettive della prole. Con la diagnosi preimpianto nell’ambito di una procedura di procreazione medicalmente assistita, infatti, non si sopprime un solo essere perché debole, non si evita l’impianto di un solo embrione perché malato. Invece, si continua a produrre un embrione dopo l’altro, al solo fine di ricavarne uno “sano” da impiantare, a cui sarà data la possibilità di vivere. Tutti gli altri sono recessivi, sono “soprannumerari”, e non saranno neppure crioconservati sine die, ma eliminati come un errore di produzione. Se oggi è possibile selezionare l’embrione privo di malattia genetica chi ci assicura che domani non potrà essere selezionato a scapito di altri quello ritenuto il più vicino a ciascun personale e soggettivo ideale di uomo, magari biondo e occhi azzurri? Oltre al fatto che una tale decisione presuppone un diritto, che non è però scritto in nessun codice, che è quello di avere un figlio sano. La nostra Suprema Corte di Cassazione infatti nel 2004 e nel 2006 ha precisato che “il diritto a nascere sani significa solo che… nessuno può procurare al nascituro lesioni o malattie, e, sotto il profilo pubblicistico, che siano predisposti quegli istituti normativi o quelle strutture di tutela, di cura e assistenza, della maternità, idonei a garantire, nell’ambito delle umane possibilità, la nascita sana… Non significa invece che il feto, che presenti gravi anomalie genetiche, non deve essere lasciato nascere”. La Corte Europea dunque non può di certo andarsi a sostituire al nostro Parlamento, modificando leggi o introducendo diritti inesistenti, utilizzando l’apparente – ma, come spiegato, solo apparente - contrasto con la Convenzione europea. È grave che la Corte stessa, invece, non si interroghi affatto sulle conseguenze che produce l’accoglimento del legittimo desiderio dei genitori ad avere un figlio sano, tramutato in diritto di autodeterminazione, in relazione ai gravi problemi che presenta l’accesso a procedure che rischiano di tradursi in una nuova eugenetica. Difetto di coerenza? Afferma ancora la Corte nella suddetta sentenza: “Bisogna constatare che il sistema legislativo italiano in materia manca di coerenza. Da una parte, impedisce l’impianto limitato ai soli embrioni non affetti da malattia; dall’altra, li autorizza ad abortire un feto affetto dalla medesima patologia”. L’incoerenza di cui parla la Corte è solo apparente perché il problema, a ben vedere, non sta affatto nella Legge 40, e nel divieto di “ogni forma di selezione a scopo eugenetico”, bensì in quella che prevede l’interruzione di gravidanza  e la possibilità di sopprimere una vita umana.  La vera contraddizione sta nel fatto che se anche l’embrione deve essere tutelato come soggetto di diritto, come è possibile sopprimerlo solo perché la sua nascita potrebbe in qualche modo nuocere alla salute della madre? Questa contraddittorietà l’aveva già sottolineata il coraggioso giudice di Spoleto sospettando d’incostituzionalità la norma che consente l’aborto nei primi 90 giorni dal concepimento, sul presupposto che la Corte di giustizia europea (organo diverso dalla Corte europea) aveva considerato l’embrione umano “suscettibile di tutela assoluta in quanto uomo in senso proprio, seppure ancora nello stadio di sua formazione/costituzione mediante il progressivo sviluppo delle cellule germinali”, al fine di vietarne la commercializzazione. Ma è evidente che  se si tutela l’embrione con tale finalità a maggior ragione dovrebbe impedirsi la sua soppressione; eppure la Consulta, cioè la Corte Costituzionale italiana, ha dichiarato la questione inammissibile. E poi non si vede come sia possibile paragonare l’interruzione di gravidanza con l’eugenetica, come sopra anticipato; afferma in un’intervista il prof. D’Agostino docente di Filosofia del diritto all'Università di Roma Tor Vergata  “l’aborto riconosciuto lecito dalla legge italiana non è un aborto eugenetico, non si fonda cioè sulla scelta di individui umani in fase embrionale sani contro quella di individui umani in fase embrionale malati. Questo è invece lo scopo delle pratiche eugenetiche: distruggere i soggetti deboli e lasciar vivere quelli sani”, ed è quello che la legge 40 cerca di vietare. Ed ancora: “La legge sull’aborto, quale che sia il giudizio etico che si vuole dare su questa legge, non impone o non favorisce una selezione eugenetica dei nascituri. E anche la Legge 40 ha inteso proibirla. Meraviglia che la Corte europea dei diritti dell’uomo non abbia voluto tenerne conto. Oltretutto un conto è parlare di diagnosi preimpianto, un conto di diagnosi prenatale. In questo caso stiamo parlando di legge sulla fecondazione artificiale e quindi di diagnosi preimpianto a carico di embrioni concepiti in provetta, prima cioè che vengano portati nell’utero della donna...”. Sull’argomento è intervenuta anche la dr.ssa Eleonora Porcu, Responsabile del Centro di Infertilità e Procreazione Medicalmente Assistita dell’Università di Bologna, la quale sottolinea che “La legge 40 e quella sull’aborto sono due leggi diverse: una cosa è pianificare a tavolino una gravidanza, decidendo deliberatamente quale embrione far nascere e quale no, un’altra è l’accettazione o meno di una gravidanza già in atto. Dal mio punto di vista non c’è contraddizione. Anche decidere quando una diagnosi preimpianto è finalizzata alla salute dell’embrione e quando è invece eugenetica è molto difficile. Prendiamo la sindrome di Down: sappiamo che il bambino avrà molti problemi durante la vita, ma chi decide se è un motivo sufficiente per scartare l’embrione?”. La soggettività giuridica dell'embrione La Corte europea è altamente debole e meramente ideologica nella sua motivazione anche e particolarmente quando asserisce che l’embrione non può essere considerato un bambino, anzi specifica che “i concetti di «embrione» e «bambino» non devono essere confusi”. E questa un’altra contraddizione della sentenza che risulta incoerente con la giurisprudenza europea, dato che la Corte di Giustizia Europea ha ormai finalmente affermato, anche in una pronuncia dell’ottobre scorso, che “sin dalla fase della sua fecondazione qualsiasi ovulo umano deve essere considerato come un embrione umano, dal momento che la fecondazione è tale da dare avvio al processo di sviluppo di un essere umano”, riconoscendo così la natura di essere umano dell’embrione fin dal concepimento e vietandone, per questo, la brevettabilità. Su questo punto la nostra L.40 è in perfetta sintonia con le tendenze della Corte di Giustizia europea  ed  è equilibrata in sé – molto più di quella simile di altri Stati membri- in quanto ha tentato in qualche modo di fare ordine in quella che qualcuno ha definito la “giungla” della fecondazione in vitro, proponendosi di tutelare i diritti di tutte le parti in causa cioè dei genitori e dell’embrione stesso. Con questa sentenza europea invece l’embrione torna a essere considerato un “qualcosa” e non un “qualcuno”, un mero oggetto che se gradito dai genitori viene osannato quale diritto di autodeterminazione di una coppia. Il giudice in sostanza stabilisce che per il diritto alla salute di uno si può sacrificare il diritto alla vita di molti; troppo spesso però ci si dimentica di essere stati anche noi embrioni e di essere nati grazie al fatto che nessuno ha deciso di eliminarci dopo il concepimento. Insomma dell’interesse alla vita e all’integrità fisica dell’embrione, la Corte di Strasburgo non sembra aver effettuato adeguato bilanciamento con il legittimo desiderio, ma non diritto, ad avere un figlio sano. Cosa si nasconde dietro la sentenza? Se la sentenza rimane questa, i due ricorrenti potranno sollevare la questione di legittimità costituzionale davanti alla Corte Costituzionale che sarà costretta a modificare la legge 40 oppure la legge 194 nelle parti interessate. Ma come già detto l’Italia ha presetato appello in secondo grado. Come ha rilevato, infatti, Lorenza Violini, professore ordinario di Diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università di Milano attraverso un articolo, quella della Corte è una “scelta pesante, nella quale i giudici persistono nel perseguire una linea di forte contestazione di legislazioni nazionali a loro sgradite, incuranti delle sconfessioni ricevute in passato in sede di appello alla Grande Camera; basti ricordare la sentenza di quest’ultima nel caso del crocefisso, di assoluzione per l’ordinamento italiano, nonché l’annullamento di una sentenza in materia di fecondazione eterologa e relativa alla legge austriaca, ad impianto restrittivo”. Una sentenza umanamente sbagliata Dopo essere andati un po’ più a fondo alla questione giuridica non possiamo non cogliere tutta la menzogna che c’è dietro a questa sentenza. È una decisione sbagliata, non solo giuridicamente, ma anche dal punto di vista etico, medico, scientifico e umano. Lo scopo della medicina è quello di guarire il paziente da una malattia. Se non è possibile guarirlo, in ogni caso curarlo, cioè, letteralmente “prendersi cura” di lui, in qualsiasi circostanza si trovi, dal concepimento all’ultimo respiro. Arrivare a selezionare gli uomini e sopprimerli (prima o dopo la nascita) non è mai stata la vocazione di un medico degno di questo nome. La giurisprudenza nazionale o internazionale non può cambiare la natura e lo scopo della medicina. Addirittura le scienze biomediche ci dicono che le malattie genetiche si posso combattere grazie alla continua ricerca scientifica che sta compiendo passi da gigante verso la correzione di difetti morfologici e funzionali provocati da aberrazioni cromosomiche e mutazioni geniche. Se lo scopo è la ricerca della salute di un uomo o di una donna, non si può mai passare per la soppressione della vita di un altro uomo o di un’altra donna, anche se solo all’inizio della loro esistenza; è profondamente illogico, irrazionale e disumano. Nessuno potrà mai negare il dolore e la sofferenza di due genitori di fronte ad un figlio malato o di fronte alla pur lontana possibilità di una malattia. Ma cosa facciamo? Desiderare un figlio e desiderarlo sano è legittimo… ma se le cose vanno diversamente? Che cosa ci richiama questa nostra “impotenza” di fronte alla realtà? Che cosa ci mette di fronte quella mancanza di un figlio che anche se tanto desiderato non arriva? Che cosa ci fa gridare la prospettiva di potersi trovare di fronte ad un figlio malato? Di fronte a questa voragine e vertigine che anche una realtà come questa spalanca nel nostro umano e nel nostro cuore, la ricerca di strenue soluzioni ipertecnologiche può veramente ricorrere in aiuto? Il concepimento di un figlio al di fuori dell’atto procreativo vissuto dagli sposi, il ricorso alla produzione in vitro dell’embrione, alla sua selezione con l’invitabile soppressione di altri embrioni-figli, sono atti che danno presupposto un atteggiamento di onnipotenza di fronte alla realtà. Farsi padroni della vita, slengandosi da un vincolo di inevitabile dipendenza dato e stabilito anche dall’ordine naturale delle cose, tacitando e assordando una coscienza interiore che non potrebbe non ribellarsi al pensiero del sacrificio di embrioni innocenti, quale vantaggio porta alla vita di un uomo? Anzi, chi può escludere le inevitabili conseguenze psico-fisiche per sé o per il figlio che nascerà? Confidiamo allora nel pronunciamento finale della Grande Chambre, che in altre importanti occasioni, per esempio sulla fecondazione eterologa e sul crocifisso, ha rovesciato completamente i pronunciamenti di primo grado, favorendo particolarmente l’autonomia di ogni singolo Stato e del suo organo legislativo su delicati e complessi argomenti come quelli bioetici, così come dovrebbe accadere sempre in una democrazia. Ci auguriamo invece che chi si trova nel dramma di affrontare una tale circostanza di infertilità fisica o di previsione di un figlio con una malattia genetica possa avere la Grazia dell’incontro umano e attraente con uomini e donne  che pur vivendo una stessa condizione di infertilità, o di malattia… intraprendono nella luce della fede in Cristo Gesù un percorso diverso da quello proposto dalla prospettiva di una tecnologia totalizzante e apparentemente onnipotente, un percorso realmente più umano e più realizzativo della vita di ciascuno nel suo senso, nella sua pienezza e verso il suo destino che è un destino di eternità. Uomini e donne che possono realmente testimoniare  nella loro carne il guadagno di una vita attaccata a Cristo Gesù anche attraverso quanto ha affermato il Santo Padre nel suo discorso all’Assemblea dell’Accademia pontificia per la vita lo scorso 25 febbraio cioè che “l’unione dell’uomo e della donna in quella comunità di amore e di vita che è il matrimonio, costituisce l’unico «luogo» degno per la chiamata all’esistenza di un nuovo essere umano, che è sempre un dono”.
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