“Sarà Lui a guidarmi”

Meriam Yahia Ibrahim Ishag, una donna sudanese di 27 anni sta portando avanti una grande battaglia non solo per l’affermazione dei diritti umani ed in particolare, il diritto di libertà religiosa: sta testimoniando la sua fede cristiana. Avrebbe potuto mentire, avrebbe potuto abiurare e sicuramente la sua vita sarebbe stata più facile. Ma non l’ha fatto. É rimasta in prigione per mesi incinta e con un figlio piccolissimo accanto a lei... Meriam è libera

14 Luglio 2014
“Ringrazio tutti quelli che mi sono stati vicini. Mi affido a Dio e voglio stare con la mia famiglia”. Queste sono le ultime parole di Meriam, al momento della sua liberazione il 23 giugno scorso. La donna, Meriam Yahia Ibrahim Ishag, una sudanese di 27 anni, dopo una serie di denuncie nei suoi confronti, il 17 febbraio di quest'anno era stata arrestata dalle forze di polizia sudanese con l’accusa di apostasia. Meriam è laureata in fisica e sposata con Daniel Wani, un sud-sudanese cristiano. Lei è invece sudanese e nel suo Paese è considerata musulmana perché nata da un padre musulmano. In base alla sharia una donna musulmana non può sposare un uomo di un'altra fede e i figli nati dalla loro unione sono quindi considerati illegittimi e frutto di adulterio.  Eppure Meriam è da sempre cristiana e in realtà i problemi sono sopravvenuti quando è stata denunciata dai parenti per apostasia. Lei, incinta di otto mesi e madre di un bambino di un anno e mezzo, è stata rinchiusa in carcere incinta e insieme al suo primogenito. Dopo alcuni mesi di prigionia è stata sottoposta a processo e il15 maggio il tribunale di Khartum l’ ha condannata a morte per impiccagione. I giudici avevano inoltre stabilito che la donna dovesse subire cento frustate per aver commesso adulterio. Prima della sentenza le erano stati dati tre giorni per rinunciare alla sua fede cristiana, ma in aula, dopo un lungo colloquio con un religioso musulmano, la donna ha affermato: "Sono cristiana e non ho mai commesso apostasia". Nella realtà Meriam non ha mai aderito al credo islamico: sin da bambina è cresciuta con la madre cristiana ed il padre non l’hai mai conosciuto avendo abbandonato la famiglia poco dopo la sua nascita. Il motivo di tutto questo accanimento non appare legato solo a motivi di “fondamentalismo religioso” ma in realtà sembra risiedere in interessi economici da parte di due fratellastri che rivendicano l’eredità e la buona posizione economica di Meriam e sono stati proprio loro ad accanirsi con le persecuzioni giudiziarie.  La condanna a morte è stata pronunciata nonostante numerosi appelli per il rispetto della libertà di religione da varie associazioni internazionali per la tutela dei diritti dell’uomo. Per salvare la giovane è stata lanciata una campagna internazionale, e anche molte ambasciate in Sudan si sono esposte, rivolgendo appelli alle autorità locali. In  centinaia hanno protestato a Khartoum, poco dopo la lettura della sentenza, scandendo slogan come "No all'esecuzione di Meriam"  e "I diritti religiosi sono un diritto costituzionale". Ma niente: Meriam è rimasta tutto il tempo in prigione, ha partorito in prigione il 27 maggio scorso, incatenata, sola, e ha dato alla luce la piccola Maya. Sicuramente gli appelli di tutte le associazioni internazionali per i diritti umani, lo sdegno dei Paesi civili e soprattutto le preghiere di tutti hanno portato il loro frutto: prima la Commissione nazionale per i Diritti umani sudanese ha definito la condanna a morte di Meriam una sentenza in contrasto con la Costituzione, che prevede la libertà di culto, poi Meriam è stata liberata dalle catene per ordine dei medici, ed infine, il 23 giugno scorso Meriam è stata liberata e si è rifugiata presso l’Ambasciata Americana insieme ai figli e al marito. La Corte d’appello, esaminato il ricorso presentato dai suoi legali, ha dichiarato nulla la sentenza precedente con motivazioni di carattere giuridico e Meriam è stata subito rilasciata. Appena liberata Meriam ha ringraziato tutti coloro che l’hanno sostenuta, ha ringraziato Dio e ha detto di voler stare con la propria famiglia. Il marito, che sta accanto alla moglie e non è tornato al suo lavoro negli Stati Uniti, continua a sostenere la battaglia per la verità e ringrazia gli sforzi internazionali consapevole che, nonostante la liberazione, la sorte di Meriam non è ancora decisa e le rassicurazioni del governo di Karthoum non hanno fugato le sue preoccupazioni e quelle del mondo intero. Infatti in questi giorni è stata diffusa la notizia di una nuova denuncia di un fratellastro che vuole Meriam morta. “Ringrazio i tanti giovani che pregheranno per Meriam e per i miei figli. Il vostro supporto, insieme a quello di tutta la comunità internazionale, è fondamentale per affrontare questa dura prova”. Questo è l’appello di Daniel, il marito, rivolto in questi giorni particolarmente al giornale Avvenire per ringraziare del sostegno, e prosegue: “Non riesco ad esprimere la gioia che ho provato quando ho saputo che i cristiani in Europa stanno pregando per mia moglie. Io e Meriam sentiamo che i vostri cuori stanno pregando per noi. Saremo pazienti e forti e non ci arrenderemo mai. Possa Dio benedire tutti voi e Meriam, e salvare la sua vita”. Meriam sta portando avanti una grande battaglia non solo per l’affermazione dei diritti umani ed in particolare, il diritto di libertà religiosa; sulla sua “pelle” sta difendendo la fede cristiana, mettendo a repentaglio la sua vita e quella della sua famiglia, del marito, e dei suoi due piccolissimi figli. Avrebbe potuto mentire Meriam, avrebbe potuto abiurare, sicuramente poi la sua vita sarebbe stata più facile. Ma non l’ha fatto. É rimasta in prigione per mesi incinta, con un figlio piccolissimo accanto a lei. Ha partorito una figlia con le catene alle caviglie rischiando l’invalidità della nascitura… infatti la bambina non sta bene. Ma questo non è stato un ostacolo, tutto ciò non ha impedito a Meriam di portare avanti la sua croce. Non una battaglia per un diritto umano o per essere un “esempio” di vera giustizia. No, queste sono conseguenze. Meriam ha portato la sua croce e la sta ancora portando per amore a Gesù, per non rinnegare il Suo nome e, certo, anche per difendere la verità e la giustizia umana. Meriam non parla molto ma chi l’ha incontrata una volta libera, ha capito di trovarsi di fronte ad una donna stanca, affaticata ma certa. Certa della sua fede e del suo amore a Gesù. “Come può una forza tanto grande essere racchiusa in un corpo così minuto?”: è stata questa la prima cosa che ha pensato Antonella Napoli, presidente di Italians for Darfur, quando ha incontrato Meriam. Lei, cristiana ortodossa, e suo marito ora desiderano incontrare il Papa: “Poter incontrare il Papa sarebbe poi una gioia immensa per Meriam e Daniel, entrambi molto credenti – ha riferito ancora Antonella Napoli-. Si sono conosciuti in chiesa, grazie alla sorella di lui. Si sono innamorati quasi subito. Poi, nel 2011, si sono sposati. Quando le ho domandato se la prigionia aveva in qualche modo cambiato il suo rapporto con la religione, mi ha risposto con prontezza di no. Le difficoltà non hanno minato la sua fiducia profonda in Dio: «Sarà Lui a guidarmi», mi ha ripetuto”. Di fronte a questa grande testimonianza di fede, non possiamo che continuare a pregare per Meriam, Daniel, i loro bambini affinché la loro situazione possa risolversi e possano vivere liberamente e professare liberamente la propria fede, come dovrebbe essere per tutti. Affidiamoli a Maria insieme a tutto quel popolo di cristiani che in ogni parte del mondo, Iraq, Cina, Pakistan, Nigeria, vive costantemente sotto l’attacco al proprio diritto di professarsi cristiani ed in pericolo di vita perché siano per noi e per tutti testimoni di vita vera che può esserci solo in Cristo Gesù e nell’abbracciare la sua croce. Diceva Benedetto XVI rendendo omaggio ai martiri del novecento in una celebrazione del 2008 : “É vero: apparentemente sembra che la violenza, i totalitarismi, la persecuzione, la brutalità cieca si rivelino più forti, mettendo a tacere la voce dei testimoni della fede, che possono umanamente apparire come sconfitti della storia. Ma Gesù risorto illumina la loro testimonianza e comprendiamo così il senso del martirio. Afferma in proposito Tertulliano: «Plures efficimur quoties metimur a vobis: sanguis martyrum semen christianorum – Noi ci moltiplichiamo ogni volta che siamo mietuti da voi: il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani »(Apol., 50,13: CCL 1,171). Nella sconfitta, nell’umiliazione di quanti soffrono a causa del Vangelo, agisce una forza che il mondo non conosce: «Quando sono debole – esclama l’apostolo Paolo -, è allora che sono forte»(2 Cor 12,10). É la forza dell’amore, inerme e vittorioso anche nell’apparente sconfitta. É la forza che sfida e vince la morte.” Meriam è libera
Resta in contatto

Iscriviti alla Newsletter