QUELLO CHE ABBIAMO DI PIÙ CARO

Il centuplo adesso e in eredità la vita eterna

Dall’approfondimento “Il centuplo adesso e in eredità la vita eterna”

Ritorniamo lì, a quel momento lì. Riascoltiamo adesso queste parole come se fossimo lì; perché noi, ciascuno di noi, è lì. Sono parole riportate nel Vangelo di Marco, Matteo e Luca, al termine del noto e drammatico incontro con il giovane ricco che interroga Gesù. Pietro, impressionato ancora una volta dalla risposta di Gesù e dalle sue ulteriori parole affermate nel guardare la tristezza con cui quel giovane se ne andava, gli disse: “Ecco noi abbiamo lasciato ogni cosa e ti abbiamo seguito. Che cosa dunque avremo?”. Questa domanda, che può apparire come una pretesa recriminatoria, soprattutto se viene tradotta o interpretata in “che cosa avremo in cambio?”, di fatto conferma l’umanità, il realismo, la sequela ragionevole di quei primi uomini. Pietro non chiede una contropartita, ma semplicemente “cosa sarà dato a noi” nel senso più umano di “cosa sarà di noi”. E comunque, in qualsiasi modo la vogliamo porre ed interpretare, accettando anche la sfida del contraccambio, Gesù non evita e non mostra fastidio per quella domanda. Anzi sembra proprio aspettarsela... E rispose loro: “Non c’è nessuno che abbia lasciato case o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per me, a causa mia, per il regno di Dio, il quale non riceverà ora, nel tempo presente, molto di più, cento volte tanto in case, fratelli, sorelle, madri, padri, figli e campi, e in eredità la vita eterna”. Che non riceva il centuplo e la vita eterna.

Chiunque avrà abbandonato e lasciato case, padri, madri, figli e campi riceverà molto di più, anzi cento volte tanto, e la vita eterna. Abbandonare case, padri, madri, figli e campi... per trovare il centuplo. E il centuplo è il centuplo! Non mi pare che in Gesù sia un modo di dire pretestuoso... E poi la vita eterna. Anzi, il centuplo imprescindibilmente legato alla vita eterna e la vita eterna imprescindibilmente anticipata nel centuplo, il centuplo adesso. Questo già sfonda e rompe tutta quella mentalità, quella recezione che si ha normalmente della vita eterna come l’aldilà totalmente estraneo e slegato con il “qui ed ora”, con l’aldiquà; con me adesso, con l’esperienza del “qui ed ora” di ciascuno.

La domanda fondamentale che dobbiamo farci ora è: su cosa poggia questa richiesta di abbandono? La parola è chiara. Ma qual è la realtà di parole come “abbandonare”, “lasciare”, come di tutte le condizioni che sono poste da Gesù e che ritroviamo sempre come inevitabili. Cosa richiamano, cosa mettono sempre a tema?

Se ci fermiamo alla recezione comune dell’abbandono, del lasciare, e per di più dell’abbandono di affetti e rapporti essenziali a cui Dio stesso ci chiama, attraverso cui Dio stesso crea e afferma la vita, assicura la propagazione del suo Amore - come il rapporto tra un uomo e una donna, tra un padre e una madre e i propri figli - non capiamo niente... Altre volte Gesù arriva a dire: “Chi non odia suo padre e sua madre, non è degno di me”... Oppure: “Lascia che i morti seppelliscano i morti”, e lì c’è il cadavere di un padre da seppellire... Visti così questi passaggi sembrano favorire quella recezione comune del Cristianesimo come esaltazione della sofferenza, del dolore, delle lacrime, del sacrificio... e di questi come suo scopo. Il Cristianesimo come il gusto della sofferenza e del disumano. Una menzogna così fortemente inserita nella testa della gente - anche della più devota - e così inaccettabile che l’inizio della nostra storia è stato tutto segnato dalla necessità di rendere ragione e riproporre il Cristianesimo per quello che veramente è. Su che cosa ci siamo incontrati? Sulla proposta di soffrire e di abbandonare o su Uno da conoscere come Presenza che ha la pretesa di chiarire il cuore, il desiderio, la vita, e di esserne la vera e piena risposta? Sulla negazione della vita con tutti i suoi fattori o sulla Presenza che costituisce la rivelazione della vita vera, piena, intera, in tutti i suoi fattori? Sulla negazione del desiderio o sulla chiarezza del desiderio e sul vero “oggetto” anelato da questo? So che la risposta la dareste in coro... ma io ve la contesto: non perché non sia vera, ma per quello che vi dicevo prima. Molti la dicono da sempre ma non la sanno, non sanno rendere ragione, se non con una poltiglia di affermazioni astratte, schematiche o emozionali, che sono senza la carne della vita, dell’esperienza e la forza della ragione. E il rendere ragione è il valore fra i più espressivi di un io consapevole e adulto ed è ciò che forma tutta la nostra tensione di presenza dentro il mondo.

Il primo elemento da chiarire - e chiarire significa che la vita si lascia invadere e determinare da questa luce, da questa chiarezza, altrimenti non si è chiarito nulla - non è l’abbandonare, il lasciare, ma il “per me”. Chi abbandona e basta, non trova il centuplo, non trova niente. Fugge, perde, e basta. Anche quegli uomini di buona volontà che lasciano tutto - ce ne sono in giro - magari per una vita consegnata al volontariato o a lenire le sofferenze del mondo, non rientrano in questa richiesta di Gesù. Ma anche quelli che nella Chiesa riconoscono e vivono la vocazione alla totale consacrazione nei consigli evangelici della povertà, castità e obbedienza - che sono chiamati quindi a lasciare fisicamente - possono non aver capito niente, come sembra apparire spesso... Perché la questione che c’è dentro la proposta cristiana in generale, e nello specifico di queste parole di Gesù, innanzitutto non riguarda alcuni ma tutti, ogni uomo. E poi non si abbandona per un ideale pauperistico, per una visione valoriale della vita, per un selezionato e confacente progetto esistenziale che qualcuno si costruisce addosso. A tutti va il nostro ossequioso rispetto, ma non la nostra attrazione. Dobbiamo porre chiarezza sull’abisso che c’è tra l’abbandonare e l’abbandonare “per me”. Pietro afferma: Noi abbiamo lasciato tutto. E Gesù risponde che chiunque avrà lasciato casa, padre e madre o sorella o figli e campi per me, a ragione di me, riceverà cento volte tanto. Quel “per me” non è una ragione a lato, una dedica, una iscrizione al termine di un discorso o di una azione, un bollino da esporre ad un prodotto, un valore aggiunto, una mera ispirazione idealistica dell’azione. È proprio tutto, la ragione reale di tutto. È l’affermazione della Presenza in cui solo consiste la vita in ogni suo battito e respiro, perché riconosciuta rivelazione del Mistero nella storia, in cui tutto e tutti consistono e di cui tutto e tutti son fatti. Quel “per me” è l’affermazione di Dio fatto Uno tra noi, di Colui che forma il battito del cuore, il respiro della vita, che è il Proprietario creatore di me e della realtà. È l’affermazione di Colui che assicura la soddisfazione, la gioia senza fine, il destino di felicità eterna. È la Carne in cui si rivela tutta la Bellezza di ogni percepita bellezza umana e tutto l’Amore eterno di ogni provvisorio e breve amore. È la scaturigine della capacità di dire “io” veramente ed interamente, della possibilità del me stesso. Pavese diceva che non si cerca altro. E sant’Agostino affermava: “Che cosa è più tuo di te stesso? Ma cosa è meno tuo di te stesso, se ciò che tu sei appartiene a qualcun Altro?”. Quel “per me” è il qualcun Altro fatto Uomo a cui ciascuno originalmente appartiene. Quel “per me” necessariamente richiama il riconoscimento di quell’Uomo come Colui che rivela il Mistero come Tutto in tutto e in tutti. Come il Redentore di ogni uomo; il rapporto di consistenza e di realizzazione dell’umano. La presenza reale di Colui che “i cieli, e cieli dei cieli non possono contenere”... Lui è, Lui solo è. Quindi, il primo e decisivo fattore di richiamo di queste parole è il riconoscimento di Cristo come presenza e rapporto decisivo nella nostra vita. Come è accaduto ai Primi, come è accaduto alla Samaritana, come è accaduto a Zaccheo, come è accaduto a Paolo... È l’incontro e il riconoscimento di Cristo come l’Avvenimento così corrispondente all’attesa più profonda, alle radici vitali di ogni uomo da far esclamare sant’Agostino così: “Tardi ti ho amato, Bellezza tanto antica e tanto nuova; tardi ti ho amato! Tu eri dentro di me, e io stavo fuori, ti cercavo qui, gettandomi, deforme, sulle belle forme delle tue creature. Tu eri con me, ma io non ero con te. Mi tenevano lontano da te le creature che, pure, se non esistessero in te, non esisterebbero per niente. Tu mi hai chiamato e il tuo grido ha vinto la mia sordità; hai brillato, e la tua luce ha vinto la mia cecità; hai diffuso il tuo profumo, e io l'ho respirato, e ora anelo a te; ti ho gustato, e ora ho fame e sete di te; mi hai toccato, e ora ardo dal desiderio della tua pace”. Senza questa chiarezza non si va avanti e non si capisce nulla, non si capisce e non si realizza il centuplo; e non si capisce cosa la vita eterna c’entri con l’adesso. Tutte le parole come “abbandono”, “lasciare”, “sacrificio”… diventano un peso insostenibile e inaccettabile, che di fatto continueremo a fuggire perché sarebbero condizioni senza il soggetto amante e da amare, che le presuppone e le rende inevitabili.

Qui c’è di mezzo la mia vita con la sua assoluta ed imprescindibile esigenza e sete di felicità che forma tutta la mia esperienza umana. E c’è di mezzo Uno che ha la pretesa di realizzarla e soddisfarla, di esserne origine e fonte inesauribile, procedimento e sviluppo, ordine e destino. Dobbiamo fermarci su queste cose, su queste parole con tutta la ragione e la preghiera possibili. Non dobbiamo più ripeterle senza soffermarci, senza che siano mendicate, attaccate ad un lavoro e un dialogo continuo. Ritrovate nel silenzio e nella preghiera. Spesso diciamo “Gesù Cristo” con una irritante assenza di consapevolezza e di esperienza di Colui che stiamo affermando. Lo diciamo come se fosse un pretesto per un discorso nostro, per giustificare un intervento o un’azione personale. Ma qui è una questione di vita o di morte. Di tutto o di niente. Di io o non io. Quel “per me” è decisivo perché quel “per me” nessuno lo può dire ad un altro come lo dice Lui. Chi lo dice è Uno che è ed ha tutta la mia felicità. È tutta la sete e la continua soddisfazione della sete, di quella sete razionalmente costitutiva di ogni uomo e continuamente presente. Quel “per me” non è Uno che afferma la verità, ma che si afferma come la Verità di tutto e l’unica Via per l’esperienza della Verità di tutto in tutto, l’unica capacità di amore e possesso in e di tutto, l’unica sorgente dell’umano vero, l’unico accesso all’Eterno come destino.

L’abbandonare, il lasciare allora è innanzitutto un affermare, non un negare; è l’affermare una preferenza dentro; non è escludere la vita, ma affermare una preferenza dentro la vita. Un Amore più grande. Un amore fino all’immedesimazione con Qualcuno riconosciuto come l’Amore da amare dentro ogni rapporto; non è non amare più nessuno. Attenti adesso: è questo che permette il centuplo dentro tutta e di tutta l’esperienza umana, e che sfocerà nel suo perfetto compimento che Gesù chiama vita eterna.

Occorre ripetere. Che significa abbandonare come Gesù lo chiede? Sembrerebbe negare l’esperienza umana, sembrerebbe annullare tutti i sentimenti, i rapporti e i fattori dentro cui la vita di un uomo si muove. Invece è un sacrificio per lasciarli affermare da Cristo che ne è la verità e il compimento. È la verità e la pienezza dell’umano sentimento, attaccamento e devozione per il padre, la madre, la donna, il figlio... In altro modo cosa ci dice Cristo? Chiarisce la provvisorietà di quello che ci possiamo ritrovare e su cui ci appoggiamo invece come esaustiva affezione. Chiarisce che nessun rapporto che viviamo e su cui vorremmo arrestarci può essere il rapporto in cui far consistere il significato esaustivo, l’appagamento del cuore; e anche il più puro, il più naturale dei sentimenti affettivi, come quello verso un padre e una madre, verso la propria donna, verso i propri figli non è in sé adeguato alla vita di ciascuno, alla vita chiarita come assoluta esigenza di verità e assoluta sete di infinito. Allora occorre non avere più la pretesa di identificarsi con ciò che stabiliamo noi e che ci siano dei fattori o dei rapporti che in sé possano corrispondere a quell’esigenza ineludibile. Ma tutto viene chiarito come segno di Lui, che ne è la ragione e la verità. Occorre abbandonare: ma nell’abbandonare c’è un affermare, un rapporto da amare e seguire che non censura, nega o affossa questi rapporti, questi sentimenti, questi fattori, ma li chiarisce, li rende veri, tanto da centuplicarli. “Chi mi segue, chi accetta la vita in me, perché la vita sono Io, non può che abbandonare”; questo abbandono certamente è anche uno strappo duro, ma non disumano e non è negazione o censura di niente. Anche quando, per esempio, c’è il riconoscimento di una vocazione alla verginità consacrata, e quindi ad una vita che fisicamente è chiamata a lasciare questi rapporti di affezione naturale o matrimoniale, è sempre per un’affezione più grande, per un amore cento volte più grande, per un livello di affezione e di intelligenza più grande; è per l’affermazione dell’Amore che crea, regge, significa, sviluppa, salva e compie ogni rapporto di amore come ogni fattore della realtà. È un richiamo per ciascuno alla verità della vita dentro ogni rapporto e possesso e alla vera vocazione di ogni uomo. Non siamo esigenza di un padre, di una madre, di una donna, di un figlio... come il significato esauriente (non lo possono essere); ma come segno del Significato esauriente, come segno dell’Eterno Padre sorgente, consistenza e destino di tutto. Nel Vangelo di Giovanni, Gesù afferma chiaramente lo scopo della vita: la vita eterna. “Questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo” (Gv 17, 3). E se Gesù nelle parole rivolte ai Suoi lega il centuplo alla vita eterna è perché questa - scopo della vita - non è qualcosa di distaccato, di sconnesso dai rapporti, dai fattori della realtà, dal dinamismo della vita di ogni giorno. Bensì ne è proprio il definitivo destino, che Gesù stesso viene a rivelare, a rendere possibile, di cui in Lui ci rende capaci. Proprio perché ne è la Rivelazione, è il Mistero fatto carne, è già qui la possibilità di questa vita, che sarà totalità nella vita eterna. Il centuplo è da capire nella coscienza e nell’esigenza che siamo del destino eterno, della vita eterna. La vita eterna come attuazione e compimento della vita adesso, che quindi già deve essere partecipata e germogliare in ogni dove e in ogni fattore dell’umano, come esperienza dell’umano. Anche il santo padre Giovanni Paolo II, nell’Enciclica Evangelium vitae, afferma: “... Altre volte Gesù parla di «vita eterna», dove l’aggettivo non richiama soltanto una prospettiva sovratemporale. «Eterna» è la vita che Gesù promette e dona, perché è pienezza di partecipazione alla vita dell’Eterno. Chiunque crede in Gesù ed entra in comunione con Lui ha la vita eterna, perché da Lui ascolta le uniche parole che rivelano e infondono pienezza di vita alla sua esistenza… In che cosa consista poi la vita eterna, lo dichiara Gesù stesso rivolgendosi al Padre nella grande preghiera sacerdotale: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo». Conoscere Dio e il suo Figlio è accogliere il mistero della comunione d’amore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo nella propria vita, che si apre già fin d’ora alla vita eterna nella partecipazione alla vita divina... Nascono da qui immediate conseguenze per la vita umana nella sua stessa condizione terrena, nella quale è già germogliata ed è in crescita la vita eterna... La vita che Gesù ci dona non svaluta la nostra esistenza nel tempo, ma la assume e la conduce al suo ultimo destino” (EV 37-38).

Resta in contatto

Iscriviti alla Newsletter