“Al tuo nome e al tuo ricordo si volge tutto il mio desiderio. La mia anima anela a te di notte, al mattino il mio spirito ti cerca…”. Così il profeta Isaia esprime l’anelante desiderio del suo cuore. “Al mattino, Signore, al mattino la mia anfora è vuota alla fonte… Uno è l’alveo del mio desiderio: che io ti veda, ed è questo il mattino…”. Sono le parole del canto con cui siamo stati accolti e introdotti a questo gesto. […] Le parole del profeta Isaia, la sua preghiera, il suo grido, le parole del canto sono una realtà che sfida e chiama in gioco continuamente la nostra libertà, fin dal primo mattino. Tutta la nostra libertà è sempre chiamata in gioco e sfidata dall’urgenza del nostro cuore, del nostro bisogno più profondo, dalla realtà insopprimibile, indomabile, irriducibile del nostro desiderio.
Scriveva Cesare Pavese in una sua poesia: “Il desiderio mi brucia, ed impera ardente e solo, nel mio cuore e nel mio cervello”. Il desiderio - come l’emergenza più evidente della realtà originale del nostro io, del nostro essere, del nostro cuore; come esplicitazione positiva della nostra più radicale mancanza, del nostro più assoluto bisogno - è “qualcosa” di così costitutivo, radicale e radicato al fondo di noi stessi, che evidentemente resiste a qualsiasi tentativo di repressione, di riduzione, di evasione o di distrazione, ritrovandosi in noi - nella profondità del nostro essere - sempre più bruciante, sempre più acuto, indomabile, prorompente. È “qualcosa” di così costitutivamente originale che, proprio dentro la nostra esperienza quotidiana, dentro qualsiasi momento del nostro procedere quotidiano, si mostra sempre in tutta la sua irriducibilità, ineludibilità, “inestirpabilità”; emerge e riemerge sempre nel suo battito inarrestabile, indomabile, anche dentro la realtà sovrastante di un nichilismo, di un “nulla”, che quotidianamente vediamo avanzare e che tenta ogni giorno di penetrare e dominare la nostra esistenza. Questo nostro più profondo e bruciante desiderio emerge e riemerge sempre, anche e soprattutto nei momenti in cui ci ritroviamo più smarriti, spaesati, pieni di insicurezze e paure, tirati verso il basso, sprofondati nell’abisso della nostra miseria.
Vorrei ascoltare con voi le parole della canzone “Il desiderio” del grande Giorgio Gaber. “Amore, non ha senso incolpare qualcuno, calcare la mano su questo o quel difetto, o su altre cose che non contano affatto… Quello che ci manca, si chiama desiderio. Il desiderio è la cosa più importante, è l’emozione del presente; è l’esser vivi in tutto ciò che si può fare… Ti salva dalla noia… Il desiderio è la cosa più importante, che nasce misteriosamente… È il primo impulso per conoscere e capire, è la radice di una pianta delicata che se sai coltivare ti tiene in vita… Non ha senso elencare problemi e inventare nuovi nomi al nostro regredire, che non si ferma continuando a parlare… Non è più necessario se quello che ci manca si chiama desiderio. Il desiderio è la cosa più importante… è l’affiorare di una strana voce che all’improvviso ti seduce; è una tensione che non riesci a controllare, ti viene addosso non sai bene come e quando… Il desiderio è il vero stimolo interiore… è l’unico motore che muove il mondo…”. Credo che questo sia uno dei testi che più riesce a farci sentire la realtà e la portata esistenziale del nostro desiderio - “come la cosa più importante… il primo impulso per conoscere e capire… una tensione che non riesci a controllare… il vero stimolo interiore… l’unico motore che muove il mondo…”.
Stando semplicemente alla nostra esperienza quotidiana, come non sentire la verità e la realtà viva e profonda di queste parole o di quelle con cui Pavese descrive il desiderio: una realtà sempre più bruciante, che arde, domina, segna profondamente il cuore e il cervello. L’affiorare di una strana voce che all’improvviso ti seduce… una tensione che non riesci a controllare… “qualcosa” che ci ritroviamo addosso, inarrestabile, indomabile, irriducibile. “Qualcosa” di prorompente e ineludibile, che emerge non solo quando ci troviamo sprofondati nell’abisso delle nostre insoddisfazioni, delusioni e dei nostri fallimenti, ma anche quando abbiamo ottenuto “qualcosa” che volevamo ottenere con tutto noi stessi proprio come soddisfazione del nostro desiderio. Attenti: non solo quando le cose non ci soddisfano e mostrano la loro radicale insufficienza a soddisfarci, ma anche quando abbiamo ottenuto una certa soddisfazione che cercavamo a tutti i costi: proprio lì vediamo riemergere il cuore, il desiderio del cuore in tutta la sua portata di irriducibilità e indomabilità. E anche quando siamo travolti dalla realtà di paure e angosce - una realtà che si è prepotentemente imposta a ciascuno davanti alla pandemia, davanti alla sua minaccia di malattia e di morte, per noi e per le persone più care - o quando ci ritroviamo sotterrati dalle conseguenze della nostra miseria o soggiogati dal vuoto e dal nulla che ci invade dappertutto, se stiamo lealmente all’esperienza, lo vediamo riemergere in tutta la sua prepotenza, acutezza, resistenza, in tutta la sua indomabilità e irriducibilità. Questa è la realtà e l’esperienza del nostro desiderio, del desiderio che segna profondamente il nostro cuore.
Ma non basta sentirlo, non basta nemmeno riconoscerlo: occorre continuamente prenderlo sul serio e assecondarlo in tutta la sua portata. Fin dal primo mattino, quando siamo ancora sotto le coperte, prima ancora di poggiare i nostri piedi per terra, la nostra libertà è sfidata e messa in gioco rispetto a tutta la reale portata infinita del nostro cuore. Continuiamo a stare all’esperienza: tanto più la nostra vita si incontra/scontra con l’incapacità di rapportarsi e reagire all’assedio spesso multiplo e drammatico delle circostanze, con la realtà di questo “nulla” che avanza, con questo sentirsi tirare verso il basso, verso il vuoto, con l’incapacità di rapportarsi con la paura, il dolore, la malattia, la morte… quanto più la struttura originale del nostro io emerge in tutta la sua natura e potenza; la realtà originale e assoluta del nostro cuore emerge in tutta la sua urgenza di domanda - anche gridata - di una risposta e di una corrispondenza piena alla sua esigenza; emerge in tutto il suo urgente bisogno di senso e di significato di sé e della realtà, in tutto il suo desiderio di essere soddisfatto, di essere amato e di amare, di essere redento e salvato: di essere felice. Tutta questa dimensione originale del nostro io, il drammatico tempo della pandemia l’ha semplicemente acuita e costretta ad emergere nella sua più radicale urgenza e contemporaneamente ha smascherato, mostrato l’inconsistenza dei nostri tentativi di autodeterminazione e di autosoddisfazione. Ma riconoscere questo non basta. Perché occorre decidere di prenderlo sul serio, occorre decidere ogni giorno se dare ascolto o meno, se assecondare o meno il nostro cuore in tutta la sua assoluta portata. Possiamo sempre parlarne e metterlo a tema nei nostri discorsi, ma ritrovarci di fatto a non prenderlo sul serio, a calpestarlo, a silenziarlo, a ridurlo a delle nostre immagini, a darlo per scontato e acquisito, ad evadere come tutti nella distrazione, nel “di-vertere”.
La nostra libertà è sfidata e messa in gioco ogni giorno, fin dal primo mattino, rispetto ad una decisione; siamo chiamati ogni giorno a prendere una decisione: se spostarci o meno dalla parte del grido di Isaia, dalla parte della realtà delle parole del canto oppure far finta di niente e lasciare il nostro cuore, il nostro desiderio, il nostro bisogno solo all’astrazione, all’abitudine, alla schematicità delle parole o dei discorsi con cui li richiamiamo. Insomma, fin dal primo mattino di ogni mattino siamo messi nella drammatica scelta se ricominciare ad ascoltare e ad assecondare il nostro desiderio, la portata infinita del nostro desiderio, rivolgendolo anelante alla presenza di Cristo o lasciarci dominare, soggiogare, corrodere dalla realtà delle nostre misurazioni, ansie e preoccupazioni o dalla realtà di un nulla, di un vuoto, di un malessere che attenta quotidianamente le nostre giornate.
Guardate che questo “nulla” può convivere tranquillamente con la nostra appartenenza quando la nostra appartenenza risulta un’appartenenza formale, in cui il cuore, il desiderio del cuore è ritrovato estraneo, anestetizzato e cristallizzato da un’abitudine, da una scontentezza, da una schematicità di parole, ed è richiamato solo da discorsi e parole astratte. Guardate che il “volto” di questo nichilismo può non essere evidente ma ritrovarsi a penetrare viscidamente, subdolamente le nostre giornate, la nostra esistenza, il nostro umano e anche il nostro cammino di fede; può essere presente in maniera decisiva anche dentro l’apparenza di una vita segnata formalmente dalla fede e da questo cammino. Proprio poco tempo fa, uno di voi mi condivideva che dietro alla maschera di sorrisi e di un’appartenenza anche impegnata si trovasse a confrontarsi con una insoddisfazione, una tristezza, un’apatia di fondo, e a fare le cose - anche la preghiera, l’andare a Messa - più per un dovere che come espressione di un’attrattiva, di un riconoscimento, di una pienezza.
Noi possiamo anche far finta di niente. Possiamo cercare di coprire o di rimuovere questo nostro malessere magari con delle cose da fare, magari con le “cose” e i rapporti della compagnia, oppure cercare di attutirlo o di evadere con dei piaceri effimeri, parziali, mondani, senza che tutto questo comporti l’uscita dalla compagnia. Ma rimane che il cuore fa il cuore, il desiderio è desiderio, e noi non possiamo impedirlo; noi non possiamo impedire che il nostro cuore continui senza sosta a desiderare tutto quello che desidera. Rimane che non è in nostro potere la sua natura originale, il suo battito inarrestabile e assolutamente anelante l’Infinito. “Ci hai fatti per te e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te”, finché non è corrisposto da Te.
È veramente sorprendente verificare come tutti i nostri tentativi di riduzione, di evasione, di attutimento, di accontentamento, di autosoddisfazione siano sempre incapaci di far tacere il nostro cuore, di spegnere o estirpare il nostro desiderio, la nostra fame e sete più radicale. Proprio la nostra inquietudine ce lo mostra. Quell’inquietudine con cui il cuore ci mostra l’irriducibilità della sua natura infinita, che non può mai essere messa a tacere. Possiamo indossare tutte le maschere di questo mondo, provare a far finta di niente, sforzarci in tutti i modi di eluderla, ma non possiamo e non potremo mai riuscire a farla tacere. E soprattutto non riusciremo mai a contenere l’emergere di una insoddisfazione, di una tristezza, di una noia, di un malessere che ci attanagliano quando il cuore non è corrisposto secondo la sua natura e in cui troviamo paradossalmente - come dice il nostro Leopardi - il maggior segno dell’infinita grandezza, dell’assoluta nobiltà della nostra natura umana, della originale e costitutiva struttura del nostro io, della irriducibilità e indomabilità del nostro cuore.
Il nostro cuore, con tutto il suo desiderio, possiamo darlo per scontato, ridurlo a delle immagini preconfezionate dal mondo; tentare in tutti i modi di soddisfarlo con le solite risposte mondane che “hanno mille secoli”; cercare di evitarlo o silenziarlo dentro una vita al massimo della distrazione e dell’evasione oppure tentare di accontentarlo con una vita mediocre, “tranquilla” e vissuta sempre al ribasso: ma non riusciremo mai ultimamente ad eluderlo, a tacitarlo, a ridurlo, a raggirarlo rispetto alla sua natura e portata infinita.
Per questo è decisivo assecondarlo, assecondarlo fin dal primo mattino di ogni santo giorno. È decisivo sentirlo e assecondarlo sempre. Solo così potremo sempre e nuovamente riconoscere la sua irriducibile e indomabile “pretesa” e continuare a sentire la necessità e l’urgenza di rivolgere tutto noi stessi alla presenza di Gesù; continuare a sentire la necessità e l’urgenza della familiarità con Cristo vivo e presente, la necessità e l’urgenza di verificare personalmente - dentro l’esperienza di ogni giorno - che tutto il nostro cuore è fatto per Lui e che solo Lui è capace di svelarlo, abbracciarlo, sfamarlo, soddisfarlo, e anche esaltarlo continuamente.
Nicolino Pompei