QUELLO CHE ABBIAMO DI PIÙ CARO

La posizione adeguata del cuore

Dall'approfondimento "La bocca non sa dire, né la parola esprimere: solo chi lo prova può credere cosa sia amare Gesù"

… Se questa iniziativa di Dio è ininterrotta e inarrestabile, se nella presenza di Cristo è un’esperienza reale, attuale e accessibile a tutti, quale posizione e atteggiamento, quale apertura e spazio trova in noi questa Grazia?

Questo richiamo è sostenuto direttamente e apertamente dal Vangelo dell’odierna Liturgia. Il Vangelo di Luca ci riferisce uno di quei momenti in cui Gesù si sofferma con i suoi discepoli a raccontare una parabola.

L’Evangelista premette a quelle di Gesù queste parole: “Raccontò loro ancora questa parabola per alcuni che mettono la fiducia in se stessi perché si credono giusti, perché sono persuasi in se stessi di essere giusti...”. Poi c’è l’inizio della parabola. “Due uomini salirono al Tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro un pubblicano...” (cfr. Lc 18, 9-14). Due uomini che salgono al Tempio a pregare. Potrebbero essere due di noi, come due di noi che hanno aderito a questo Convegno. Gesù chiarisce che si tratta di un fariseo e di un pubblicano. Quindi i protagonisti sono due rappresentanti di posizioni estreme. Il primo è un fariseo, osservante scrupoloso della Legge, separato da quelli che egli ritiene peccatori e reprobi. L’altro è un pubblicano, cioè un esattore del fisco a servizio di qualcuno che ha in appalto la riscossione del dazio a favore degli occupanti romani. Non è superfluo ricordare e sottolineare che gli appartenenti a questa categoria erano considerati sfruttatori e strozzini, odiati o allontanati dal pregiudizio dei praticanti devoti. Comunque ambedue si ritrovano uniti dalla medesima esigenza di pregare al Tempio. E immediatamente Gesù, nel raccontare questa parabola, fa risaltare nettamente l’opposizione radicale del loro atteggiamento nella rispettiva preghiera al Tempio. Il fariseo prega come tutti i devoti Giudei: in piedi, con le braccia levate e il capo alto, “dicendo così tra sé: o Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, disonesti e adulteri e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago la decima di quanto possiedo”. Poi riferisce del pubblicano dicendo: “Il pubblicano invece si ferma a distanza e stando lontano non osava neppure alzare lo sguardo al cielo, ma si batteva forte nel petto dicendo: o Dio, abbi pietà di me peccatore”. Gesù conclude dando questo giudizio: “Io vi dico che questi – il pubblicano, l’odiato esattore delle tasse, il grande peccatore - tornò a casa sua giustificato e non l’altro...”. L’altro, il fariseo, il puro e onesto osservante della Legge, invece no. “Perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato”. Questa volta Gesù per richiamarci l’atteggiamento corrispondente alla nostra natura usa di una parabola che ha un fortissimo riferimento reale e attuale nel popolo, tanto da suscitare rabbia ed ira in molti che lo ascoltano. Normalmente Gesù indica i piccoli e i bambini. Questa volta utilizza la realtà concreta di due atteggiamenti ritrovabili proprio nella situazione storica in cui lui stesso vive. Siccome la natura dell’uomo e il vero dinamismo della vita sono fattori oggettivi, l’atteggiamento del pubblicano risulta e viene confermato da Gesù come l’unico adeguato ed idoneo. Il fariseo è uno che sta in piedi, dritto, sicuro delle proprie virtù e dei propri meriti, che ringrazia Dio per essere esente dai vizi degli altri uomini e perché ricco di opere meritorie. Egli osserva sul serio la Legge. Una osservanza sostenuta anche da pratiche come il digiuno due volte la settimana e il pagamento della tassa su tutte le cose acquistate. Formalmente è una preghiera ineccepibile, anche perché questo è il vero spirito del fariseismo. Ma è proprio ciò che Gesù smaschera senza mezzi termini. La preghiera del fariseo, dietro l’apparente devozione, è una preghiera, oserei dire, senza Dio, senza il riconoscimento di Dio. Il riferimento a Dio è pretesto e copertura di un io ricco e gonfio di se stesso, che usa del rapporto con Dio per la propria autoesaltazione. L’uomo che c’è e si nasconde dietro questa preghiera è un uomo che non aspetta nulla da Dio, non è un mendicante di Dio e non ha nulla da chiedere. Usa della preghiera solo per confermare se stesso come misura, per far mostra di sé, in un continuo tentativo di autoesaltazione. Ed è così gonfio e preso dalla sua alterigia da provare solo disprezzo degli altri e vivere nella contrapposizione con gli altri, in cui addirittura si sente esaltato. Invece il pubblicano, l’esattore del fisco, evidentemente un peccatore, sta a distanza perché è spaesato, perché sente la sproporzione, ha la coscienza della sua sproporzione. Sente tutta la sua mancanza, la sua fragilità, il suo tradimento e tutto il bisogno di perdono. È umiliato dal dolore di questo tradimento e supplica battendosi il petto con la formula istintiva del peccatore che non sa dire bene i suoi peccati, dicendo: mio Dio abbi pietà di me peccatore. È la preghiera del povero che è tutto proteso a rimettere la propria vita a Dio. Sente dolore e quindi documenta di essere in una tensione e apertura alla verità di sé, che lo porta a piegarsi mendicante della Misericordia, in cui solo sente la possibilità di essere riammesso alla vita. È l’atteggiamento richiamato giusto da Gesù perché il solo adeguato ad aspettare e ricevere tutto da Dio. È quello che noi riconosciamo nella posizione del mendicante. È sconcertante il giudizio conclusivo di Gesù: l’odiato esattore del fisco, il peccatore torna a casa giustificato cioè perdonato e nella compiacenza di Dio. Quella giustizia, che il fariseo vantava davanti a Dio come una conquista frutto di uno sforzo, di una capacità e di un merito personale, è invece data al pubblicano che la riceve come dono della Misericordia di Dio. Senza tentennamenti e giri di parole, Gesù afferma questa come la vera giustizia di Dio. E qualifica la posizione dell’uomo - sia che stia di fronte a Dio sia che stia di fronte alla realtà - in un totale rovesciamento paradossale: chi innalza se stesso, chi si esalta sarà umiliato, e chi si umilia e si abbassa sarà innalzato ed esaltato. Anche questo richiamo non può che trovarci umili ed accoglienti. Urgentemente ed umilmente accoglienti per quello che comporta alla vita nel rapporto con l’Avvenimento decisivo della vita. Ed è un richiamo che non riguarda solo chi di noi vive da anni questa Compagnia ma anche l’ultimo arrivato, uno che magari ha deciso di entrare per curiosità dentro questo tendone e si è fermato a vivere questo incontro. Riguarda tutti e ogni momento di ciascuno. Il richiamo di Gesù non è su chi prega meglio o su chi usa un migliore formulario per la preghiera. Ma è sempre razionalmente indicativo di una posizione fondamentale per la vita. Quando diciamo posizione, posizione del cuore, della vita, ci riferiamo all’atteggiamento in cui solo è più o meno possibile il loro dinamismo. Posizione, atteggiamento che non possiamo stabilire autonomamente e arbitrariamente, ma che riconosciamo e riceviamo proprio dal leale e razionale riconoscimento della natura stessa della vita e del cuore. L’atteggiamento permanente che solo corrisponde è quello dell’umiltà e della mendicanza, di una domanda, di un’attesa e di una tensione permanente verso chi la può compiere. Anche quando Gesù ci parla di umiliazione non è certamente per invitarci a disprezzare la vita o il nostro umano. Si riferisce all’atteggiamento di chi ha coscienza di se stesso e dell’assoluta dipendenza da Chi solo può continuamente riaffermare, riscattare, riammettere la vita alla Vita, ad un cammino vivo, libero e vero. È l’atteggiamento adeguato di chi riconosce la propria dipendenza originale, e Chi è e dove sta la vera consistenza e la continua linfa vitale della vita di un uomo. È insensato, irrazionale e certamente disumano porsi di fronte a se stessi o nel rapporto con la realtà con l’atteggiamento di chi esteriormente domanda ma di fatto è tutto occupato e determinato da se stesso come misura di tutto e in cui il riferimento a Dio non può che risultare un pretesto. Nel fariseo evidentemente non emerge la propria umanità come dipendenza e quindi come domanda che attende tutto da Colui che è Tutto. È già preso da una propria e incontestabile definizione di sé e degli altri che non ammette altro che conferme ed esaltazione di meriti e virtù. Nel pubblicano, invece, la sentiamo questa dipendenza e soprattutto la coscienza di questa sproporzione, che non lo annichilisce ma lo apre all’umile mendicanza di Chi solo può affermare e riaffermare l’io di ciascuno, interamente e pienamente. Segnato dal dolore dei suoi continui tradimenti e nella coscienza di questa sproporzione, è tutto proteso a quell’Amore che riabilita sempre e in cui la vita trova la sua massima significazione, esplicitazione e redenzione. “Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù...” (Rm 3, 23-24). Ciò che afferma san Paolo, nella Lettera ai Romani, è solo una diversa e profonda esplicitazione di ciò che Gesù rivela nella parabola: siamo tutti peccatori e privi di giustificazione. Tutta la nostra giustificazione è solo nella Grazia della redenzione realizzata da Cristo. Sono sicuro che se in questo momento vi chiedessi di prendere posizione per il pubblicano o il fariseo, quasi tutti patteggereste per il pubblicano. Ma se siamo qui non è per patteggiare per l’uno o per l’altro, è invece per verificare qual è il nostro atteggiamento, se è quello che ci richiama Gesù. Siamo qui per aiutarci e sostenerci in questa esatta e ineludibile posizione rivelata da Gesù. Perché la vita risulti segnata dall’esperienza dell’amore di Cristo come l’Avvenimento significativo ed esplicativo della vita e del suo rapporto con persone, cose, circostanze e fattori della realtà.

Nicolino Pompei

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