QUELLO CHE ABBIAMO DI PIÙ CARO

…Per l’esperienza di un’assoluta sublimità

Dall’approfondimento “Quello che poteva essere per me un guadagno, l'ho considerato una perdita a motivo di Cristo..."

Brano di Nicolino Pompei

tratto dall’intervento “Quello che poteva essere per me un guadagno..."

“Quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù mio Signore. Per Lui ho lasciato perdere tutte queste cose valutandole rifiuti, per guadagnare Cristo ed essere trovato in Lui” (Fil 3, 7-9).

È proprio una Grazia, un abbraccio di infinito e gratuito Amore alla vita di ciascuno, adeguato al desiderio e al bisogno di ciascuno, essere accolti così. Immediatamente richiamati e introdotti all’avvenimento di una umanità segnata ed affermata dall’esperienza di una sublimità nell’esperienza di una presenza storica in cui questa si realizza, si rende visibile e attuale proprio nell’umano di qualcuno che ce la testimonia. Se lasciamo incontrare la realtà di queste parole con il nostro umano per quello che è, secondo la sua evidente originalità e costituzione, non possiamo non sentire l’esperienza di una pro-vocazione fino all’attrattiva di tutto noi stessi. Non possiamo non sentire il prorompere di una domanda e di un desiderio - che sempre ci segnano profondamente - per l’Avvenimento generativo di quella umanità che le afferma come testimonianza e assoluta definizione della propria vita. Non possiamo non sentire emergere il dinamismo inarrestabile e ineludibile del cuore, in tutta la sua prorompente domanda ed esigenza, per l’esperienza di un’assoluta sublimità. Che impone un’apertura della ragione in un contemporaneo coinvolgimento della libertà con l’umano che le afferma come esperienza e definizione di sé. Occorre essere semplicemente uomini, occorre l’umano dalla parte di ciò che lo caratterizza e lo costituisce originalmente.

Qual è allora il primo passo che adesso siamo chiamati a fare? Di fronte a queste parole siamo chiamati ad un reale e leale coinvolgimento di tutto noi stessi, come tensione che ci riguarda sempre e che non può mancare mai in chi ha a cuore veramente la vita, in chi la desidera e la attende dalla parte del desiderio, del cuore segnato dalla pretesa di un’assoluta sublimità capace unicamente di corrisponderla fino in fondo e continuamente. C’è solo da ritrovarsi e permanere nel dinamismo dell’umano colto e riconosciuto secondo la sua evidente natura proprio dall’esperienza leale e reale del nostro rapporto con la realtà. Che non può che farci ritrovare l’assoluta e irresistibile esigenza di incontrare l’umanità di colui che pone queste parole, di incontrare l’uomo che, dentro una certezza granitica e come esperienza reale, dice queste parole per affermare tutta la pienezza e la consistenza del suo umano. Ritrovarsi chiusi o in un rifiuto, è solo per un ingiustificato, irrazionale e meschino pregiudizio, che censura la ragione e arresta la libertà. Censura la ragione nella sua natura e nel suo vero dinamismo, che è solo nell’esigenza e nell’apertura a rendersi conto di ciò che incontra e con cui si imbatte nell’esperienza della realtà, e nel riconoscerne l’avvenimento costitutivo e generativo, proprio per il guadagno di sublimità e di beatitudine della vita stessa. E contemporaneamente arresta la libertà in tutta la sua originale ed autentica vitalità. Una vitalità che è proprio nella capacità di coinvolgimento e di adesione alla provocazione che emerge dall’esperienza della realtà, per lasciar incontrare, riconoscere, aderire ed attaccare tutta la vita a quell’avvenimento che solo può permettere e realizzare la sua assoluta beatitudine. Tornano in mente, ancora una volta, le grandi parole di Cesare Pavese in tutta la loro evidenza: “Il pensiero più risoluto non è nulla di fronte a ciò che avviene. La pazzia consiste nel credere eventi dei semplici pensieri”. Credere eventi dei semplici pensieri, assicurare la vita a dei semplici pensieri, sottomettere la realtà a dei semplici pensieri - fosse anche un pensiero risoluto -: è una follia dentro cui intrappoliamo e ammaliamo la vita. Allora, qualsiasi pregiudizio, come qualsiasi arroccamento dentro “dei semplici pensieri”, così come il flagello della presunzione del “già saputo”, è quello che di più deleterio possa ora ritrovarsi in noi. Ciò che rende ragione del nostro essere qui, e che dovrebbe segnare normalmente la vita di ciascuno, è proprio quell’indomabile e continua esigenza di essere investiti e colpiti dall’avvenimento di una presenza che realmente e incessantemente accalori e sfami d’Amore il nostro cuore. Questo nostro cuore incessantemente assetato non ha bisogno di un discorso per venire soddisfatto, ma dell’esperienza di una presenza reale capace di investirlo e corrisponderlo realmente e continuamente. È proprio la pro-vocazione affascinante che riceviamo dalle parole di quest’uomo chiamato Paolo che ci spinge a coinvolgerci totalmente e apertamente con l’avvenimento della sua esperienza di uomo e di vita, che lo fa emergere in questo giudizio radicale su di sé. Usando della Grazia della sua testimonianza - come di ogni testimonianza -, attratti dal desiderio di lasciar segnare radicalmente la vita dalla medesima esperienza, non possiamo che domandarci chi è l’uomo che sta dietro a queste parole. Da quale umanità, da quale statura di uomo emergono.

Chi è quest’uomo di nome Paolo? E che cosa gli è accaduto di così sconvolgente da portarlo ad usare queste parole, che ritroviamo nella sua Lettera scritta alla comunità di Filippi? Siamo immediatamente aiutati dal Santo Padre Benedetto XVI, che durante la celebrazione dei Primi Vespri della solennità dei santi Apostoli Pietro e Paolo, in occasione dell’apertura dell’Anno Paolino, ha affermato: “Siamo dunque qui raccolti per interrogarci sul grande Apostolo delle genti. Ci chiediamo non soltanto: chi era Paolo? Ci chiediamo soprattutto: chi è Paolo? Che cosa dice a me?... Nella Lettera ai Galati egli ci ha donato una professione di fede molto personale, in cui apre il suo cuore davanti ai lettori di tutti tempi e rivela quale sia la molla più intima della sua vita. «Vivo nella fede del figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2, 20). Tutto ciò che Paolo fa, parte da questo centro. La sua fede è l’esperienza dell’essere amato da Gesù Cristo in modo tutto personale; è la coscienza del fatto che Cristo ha affrontato la morte non per un qualcosa di anonimo, ma per amore di lui - di Paolo - e che, come risorto, lo ama tuttora, che cioè Cristo si è donato per lui. La sua fede è l’essere colpito dall’amore di Gesù Cristo, un amore che lo sconvolge fin nell’intimo e lo trasforma. La sua fede non è una teoria, un’opinione su Dio e sul mondo. La sua fede è l’impatto dell’amore di Dio sul suo cuore. E così questa stessa fede è amore per Gesù Cristo”.

La fede è proprio quest’essere colpiti dalla presenza di Cristo, è l’esperienza dell’impatto sorprendente con l’avvenimento del Suo amore gratuito. La fede è la gratuita iniziativa dell’amore di Cristo che investe e colpisce il cuore fino all’attrazione e allo sconvolgimento di tutto se stessi, operando quella trasformazione che vediamo proprio nella vita di san Paolo. Sento l’esigenza di continuare a richiamare ciascuno alla necessità di una verifica positiva nel nostro umano dell’esperienza di questa fede, dell’esperienza di questo essere colpiti e sconvolti nell’amore dall’Amore. Certamente non possiamo semplificarla con la presenza di parole che non risultano evidenti nella testimonianza del nostro umano. Il “vieni e vedi” che segna la proposta e il metodo che Cristo stesso introduce nella vita di Andrea e Giovanni all’origine del loro incontro con la Sua presenza, impone all’umano di ciascuno una continua e permanente esperienza e verifica. Proprio perché, questo avvenimento sconvolgente e trasformante la vita, risulti presente, vivo, incidente, ora come sempre, dentro la vita e l’umano di ciascuno. Non evitiamo, allora, di porci la domanda sulla nostra esperienza di fede e di verificare semplicemente se ora vive in noi come un essere colpiti, sedotti, attratti e sconvolti dalla presenza di Cristo.

Nel riportare l’affermazione di san Paolo vedo che avete sottolineato particolarmente le parole “perdita” e “guadagno”. Come a voler riaffermare i termini necessari di una verifica umana nella sfida positiva tra la vita - nella sua pretesa di guadagno, di pienezza e soddisfazione - e la pretesa di Cristo - dell’avvenimento della Sua presenza viva nella Chiesa - di esserne la vera e sublime corrispondenza. Ma ciò che io avrei ulteriormente sottolineato è la parola “conoscenza”. Perché seguendo san Paolo emerge indiscutibilmente l’esperienza della fede in Gesù Cristo come l’esperienza di una iniziativa della Grazia che, investendolo, lo spalanca ad una conoscenza nuova. Una conoscenza nuova che non solo lo fa emergere con quel giudizio tremendo su ciò in cui fino a quel momento aveva confidato, ma che lo introduce e lo porta all’attaccamento di tutto se stesso alla presenza di Cristo e a vivere solo per il Suo amore. È giusto, allora, aver rimarcato le parole “guadagno” e “perdita” come i termini di un’esperienza necessaria e richiesta come verifica, contemporaneamente dalla vita e da Cristo stesso. Ma questa non può essere relegata ad una interpretazione soggettiva, visionaria o idealistica dentro cui la vita continuerebbe solo a ritrovarsi delusa e annullata nella menzogna. Le parole usate da san Paolo confermano indiscutibilmente che si sta parlando di un fatto, di un’esperienza reale e non di una visione, né di uno stato d’animo o psicologico. Quello che emerge in modo tutto particolare dalla sua esperienza - proprio come una testimonianza evidente ed irrinunciabile - è un Fatto, è un’esperienza reale determinata dall’avvenimento di una conoscenza nuova che investe gratuitamente e sorprendentemente la sua vita; e che come avvenimento è incontrabile e proponibile a tutti proprio come esperienza reale. In cui solo si guadagna e senza la quale tutto si perde. Proprio perché è una iniziativa della Grazia che accade come avvenimento presente, è un’esperienza possibile a tutti, ed è possibile sempre, e non teme nessuna verifica umana. Anzi, la richiede come tensione necessaria alla incessante esigenza del cuore e come certezza per il cammino della vita. Non è una iniziativa nostra né una interpretazione visionaria, ma nemmeno una questione moralistica o psicologica. Ce lo ha confermato lo stesso Benedetto XVI in un tratto prodigioso di una sua Udienza Generale, il 3 settembre 2008, sull’apostolo Paolo: “Questa svolta della sua vita non era frutto di un processo psicologico, di una maturazione morale e intellettuale ma viene dall’esterno; non è frutto della sua maturazione ma dell’incontro con Cristo, un avvenimento che lo ha trasformato... Tutte le analisi psicologiche non possono chiarire… Solo l’avvenimento, l’incontro forte con Cristo, è la chiave per capire ciò che è successo”.

Se non ci impantaniamo in un ascolto pieno di pregiudizi, completamente distratto da un nichilismo imperante nella nostra testa e sulla nostra mentalità; se ci lasciamo strappare dalla presunzione deleteria del “già saputo” e lasciamo emergere il nostro umano senza più censurarlo e offenderlo con quell’arida e sufficiente scontatezza con cui troppo spesso lo trattiamo; se ci ritroviamo in una rinnovata tensione originale del cuore, non possiamo non sentire questi giorni come un’occasione piena di una Grazia tenerissima perché il nostro rapporto con Cristo sia nella medesima esperienza di attrattiva e profondità di tutto il nostro essere, pari a quella di san Paolo.

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